1553
Lodovico Dolce, Le trasformationi, canto quarto
Mentre di monte in piano egli camina,
di selva in bosco, e d’uno in altro loco;
vide una Ninfa di beltà divina;
e subito d’Amor l’accese il foco.
Calisto era la Ninfa pellegrina
figlia di Licaon; che’l fiero giuoco
apparecchiando a Giove, ei’l fece Lupo,
c’hor habita le selve e l’aer cupo.
Non attendeva a feminil lavori
la bella Ninfa; ne vestir solea
ricchi panni di varii e bei colori;
ma d’una vesta semplice godea.
Colsi d’ogni viril commertio fuori
i monti, in boschi, e i selve ella vivea,
con l’arco in mano, e la faretra al fianco;
e involta il biondo crin d’un velo ianco.
Sovente ancor d’un lieve dardo altera
a feroci Cinghiai dava la caccia:
fida in somma di Delia era guerrera;
ne a lei fu de la sua piu cara faccia.
Ma Fortuna di noi nimica fera
Non vuol, che troppo al mar duri bonaccia;
ma quello render suol gonfio e turbato,
et in breve disturba un lieto stato.
Gia Febo era salito a mezo’l giorno,
e’nfiammava la terra il caldo raggio;
quando Calisto in un boschetto adorno
ritene il faticoso aspro viaggio,
spesse e folte le piante eran d’intorno,
a cui ferro giamai non fece oltraggio;
e tra’ piu chiusi e piu riposti horrori
nel mezzo havea un pratel d’herbe e di fiori.
Questo per letto suo Calisto elesse,
che di futuro mal tema non have.
Ne l’herba l’arco e la faretra messe,
di cui si fe guancial dolce e soave.
Poi, che la testa il lieue carca presse
di lei, che nulla pur sospetta a pave,
Giove, che stanca e senza scorta vede
giacer le bllea Ninfa, affretta il piede.
Questo furto (dicea) qui sia sepolto;
esaper nol potrà la mia Consorte;
e quando ella’l sapesse, e fossi colto,
l’offesa non saria però di sorte,
ch’ella turbar se ne dovesse molto,
come suol far, ne la celeste corte.
Cosi disse; indi prese habito e forma
di quella, onde colei seguiva l’orma.
In forma di Diana s’appresenta
Giove e Calisto: e dice, o bella amica,
ove sei stata a cacciar hoggi intenta?
In quale ombrosa selva, o valle aprica?
A levarsi Calisto non fu lenta:
e si, com’era semplice e pudica,
lo inchina e lo saluta; e l’antepone
a Giove; ne vuol c’habbia paragone.
Sorrise Giove a le parole, e gode,
ch’ella maggior di se lui stesso appella.
E mentre i cari accenti ascolta e ode,
la bascia, e tocca hor questa parte, hor quella
poteano i basci dimostrar la frode,
che non eran modesti e da Donzella.
Non s’avvide Calisto, e’l collo cinge
di Giove, e similmente il bascia e stringe.
E volendo narrar diffusamente
dentro a qual selva havea caciato, e dove,
egli de la dimora impaciente
le si mostrò con vero aspetto Giove.
La Ninfa cerca pur mesta e dolente
d’uscir fuor de le braccia a tutte prove:
ma contra Giove si potea dir nulla
la forza e’l poco ardir d’una fanciulla.
Ben, se l’Havessi alhor Giunon veduta,
so che saresti a lei stata pietosa.
Havendo Giove la vittoria havuta
di quella dolce sua pugna amorosa,
tornossi al ciel, ma quella, che perduta
ha sua virginità, tutta dogliosa
fugge quel bosco, e l’odia, come vero
testimon del suo eterno vitupero.
E tanto fu la doglia acerba strana,
che dal rapito honor l’alma le scosse;
che poco men, che divenuta insana,
di torre Arco e faretra ella scordosse.
Et ecco inanzi a lei giunge Diana,
che lieta del cacciar più che mai fosse,
con la sua bella eletta compagnia
ricca di preda in Menalo venia.
Com’ella di lontan Calisto vede,
tosto la chiama, e a girne seco invita.
Ella, che Giove ancor sospetta e crede,
ritorna in dietro, e di fuggir s’aita.
Ma udendo le Ninfe, afferma il piede,
entra fra lor; ma non, qual prima qradita.
Ahi, che commesso mal di rado occolto
si tien cosi, che nol dimostri il volto.
La conscienza, che le preme e lima
mai sempre il petto, e mai non l’abandona:
quella, ch’avvien, ch’un scelerato opprima,
e piu che mille testimon ragiona;
non le lascia a Diana, come prima
solea, troppo accostar la sua persona:
anzi par, che’l timor cosi la tocchi,
che non osa levar da terra gliocchi.
Calisto piu non ride, e non favella,
ma muta, afflitta, e vergognosa stassi;
e tinta ha d’un rossor la guancia bella,
che par, che’l modo e il costume passi.
E, senon che Diana era Donzella,
da cui tutti i sospetti erano cassi,
havuto havria, tenendo gliocchi intenti,
del suo perduto fior chiari argomenti.
Ben furono di cio le Ninfe accorte,
ma non ardir giamai farne parola.
Havea per le sue strade oblique e torte
la Luna, mentre fugge e mentre vola,
noue mesi portati. Onde la morte
brama Callisto, e più non si consola;
pero, che gravida era, e’l corpo tale,
ch’occultarsi hoggimai non puote o vale.
Avenne un dì, ch’al maggior caldo estivo
Diana essendo homai languida e stanca,
entrò in un bosco, ove un corrente rivo
mormorando volgea l’arena bianca:
ne le cui sponde un lauro, e un’Olivo,
a la destra cosi, come a la manca,
grate e dolci a ciascun l’ombre porgea,
che fugir il calor del Sol volea.
Le Ninfe furo similmente preste
a discoprir le belle membra ignude.
chi quivi appende, e chi colà la veste:
stassi Calisto; e par ch’agghiacci e sude:
cerca (e le luci ha torbidette e meste)
di non appalesar ciò ch’ella chiude:
ma le Ninfe le fur subito intorno,
e tosto le spogliar l’habito adorno.
Col levar de la vesta a dimostrarse
di fuor venne l’ascoso suo peccato.
Alla volea pur con le man cerarse;
ma Diana con volto assai turbato
(che uergogna e disdegno il petto l’arse)
parti, disse: e col vil corpo macchiato
non offendere il sacro fonte; e mai
di venir, dov’io son, non ardirai.
Piacque a Diana il luogo: e tocche l‘onde
co’ bianchi piedi; qui potem spogliarci
disse, Ninfe tra queste spesse fronde,
che non sia alcun, che venga a riguardarci;
e in queste acque purgate, e chiare, e monde
potrem commodamente anco lavarci.
Così disse: e fu prima essa a levarne
il drappo; e dimostrò la bianca carne.
A la superba Giuno di Calisto
era gia stata la novella detta:
ma dentro’l petto suo turbato e tristo
commodo tempo a la vendetta aspetta:
venne il parto maturo; e fece acquisto
la mesta e sconsolata giovanetta
d’un figlio maschio, più ch’altro mai fosse,
vago e leggiadro: e Arcade nomosse.
Quinci volgendo a lei gliocchi e’l pensiero,
questo mancava a mia vergogna, disse,
che, per mostrar di Giove il fallo vero,
un’adultera humana partorisse;
e che del comun nostro vitupero
honorata e contenta ella ne gisse.
Ma gia non goderai di tal ventura,
ch’ora ti leverò questa figura.
Questa figura, che’l mio Giove accese,
e ti fa contra me gonfia e superba.
Cosi dicendo, pe’ capei la prese,
e lei, che ne piangea, stese ne l’herba.
Di pugna e calci poi tanto l’offese,
ch’ella sfogò il velen de l’ira acerba.
La misera, inalzando ambe le braccia,
d’impetrarne mercè tenta e procacia.
Ma ecco, che le braccia incominciaro
a vestirsi di negri e duri velli;
le mani in torti unchioni si cangiaro;
e similmente que’ be gliocchi, quelli,
che col dardo d’Amor Giove impiagaro,
diventar brutti, spaventosi, e fessi:
così larga la bocca le diventa,
che gia di picciol spatio era contenta.
E, perche ne piu preghi, ne parola
possa formar, ch’altrui mova a pietade;
la lingua humana a la meschina invola,
i dolci accenti, e le parol grate.
E, s’ella vuol parlar, l’esce di gola
con aspro suon di note disusate
fiera, piena di sdegno, e horribil voce;
ch’a lei medesma, non ch’ad altri noce.
Così la bella Ninfa Orsa divenne:
ma, benche priva de l’humano aspetto
fosse, pur tuttavia vivo ritenne
il solito discorso e l’intelletto.
e spesse volte per usanza tenne
(come esprimer volesse il suo concetto)
d’alzare al ciel co’ piè l’occhio turbato;
e parea che dicesse, Ah Giove ingrato.
Quante fiate non osando starsi,
ove vestigio human l’herbetta stampi,
presso a la casa sua solea fermarsi,
e gir d’intorno a li suoi colti campi:
quante fiate a pena ripararsi
puo da rabbiosi Can, si che ne scampi;
e fugge i Cacciator, dov’ella prima
fra cacciatrici Ninfe era la prima.
Come vede una fera, ella s’asconde:
e se bene Orsa è ancor, gli Orsi temeva.
E, come Lepra al mover de le fronde,
cosi ella ad ogni incontro si scuotea:
e la tema e’l dolor si la confonde,
che tregua, o pace, in nessun tempo haveva:
ne men presta fuggia de’ Lupi l’orma,
quantunque havesse il padre in quella torma.
Intanto era a l’età di quindici anni
di Calisto il figliuol giapervenuto;
che non sapea de’ mal cangiati panni
de la madre, ne men l’havria creduto.
E mentre di pensier voto e d’affanni
Giva cacciando; a i boschi era venuto
con reti e dardi, e piu compagni a cato,
discorrendo l’Arcadia, d’Erimanto.
E, mentre da compagni si ritira
alquanto spatio per trovar nel Monte
luogo adatto a quello, ove’l suo core aspira,
e dove egli più havea le voglie pronte;
lamadre incontra. Ella si ferma e’l mira,
che lo conobbe’l figlio, e lo riguarda fiso,
ne move gliocchi suoi dal caro viso.
Ei, che lei non conosce, in prima n’hebbe
spavento; e ratto per fuggir si volse:
e poscia, perche ucciderla vorrebbe,
subito per ferirla il dardo tolse.
Alhor de l’innocente a Giove increbbe,
subito per ferirla il dardo tolse.
Alhor de l’innocente a Giove increbbe,
e l’homicidio comportar non volse:
ma cader fece al giovenetto il telo,
e la madre e’l figliuol pose nel cielo.
E gli stelle elette e pellegrine;
quanto bontate e innocenza vale.
L’ira di Giuno trapassò ogni fine,
poi che vide nel ciel la sua rivale:
e lasciando le stanze alte e divine,
fece spiegare ai suoi Pavoni l’ale;
e giu nel mare a trovar Theti scende;
indi al vecchio Oceano i passi stende.
Cercando la cagion di quella via
il veglio e Theti, Oime, Giunon rispose,
che sì grave è la nova ingiuria mia,
c’havrò le uci ogn’hor meste e dogliose.
Voi udrete, si come notte sia
splender nel ciel più stelle luminose
tra’l minor cerchio, che circonda il polo.
Quindi ne vien la causa del mio duolo;
Perche in vece di me del ciel Reina,
un’altra il mio bel seggio occupa e tiene:
onde qui son discese humile e china
a dolermi con voi de le mie pene.
Lassa a nimici miei cerco ruina;
ma loro a maggior pro l’offesa viene.
E chi sia quel, poi che poter non haggio,
che non ardisca ogn’hor di farmi oltraggio?
O, come l’opra mia rimasa è vana,
come è en giunta ogni mia pace e riva.
A Calisto levai la forma humana,
la feci in terra Bestia, e’n cielo e Diva.
Almen l’Havesse da l’effigie strana
tornata ne l’aspetto, ond’io l’ho priva:
si come fece il mio buon Giove ancora
a colei, che sul Nilo hoggi s’honora.
Deh privi me de’ marital legami,
e lei per sua moglier conduca e mene;
s’avvien che si la’pprezzi, e tanto l’ami,
che piu di Giunon sua non si sovviene:
e Licaon, se par che non l’infami
l’opra crudel, le scelerate cene;
prendasi homai per genero, dapoi
che tanto inalza quella, e abbassa noi.
Ma, se pietà per me volge la chiave
de’ vostri cuor; di me, che pur nudrita
fui sotto cura vostra, onde ve n’have
l’animo, e ve n’havrà gratia infinita;
non lasciate, ch’al mar vostro si lave
alcuna d’esse Stelle; ne sai ardita
d’appressarvisi mai la mia rivale,
s’appo voi giusto prego e pietà vale.
Lor vietate bagnarsi: ch’è ben degno,
poi che de l’adulterio è guiderdone
il ciel, ch’è sol de i Dei beato Regno,
e de l’anime elette, honeste, e buone.
i dei del mare dimostraro segno
di gran pietate in confortar Giunone;
el’uno e l’altra le promise poi
di far paghi e contenti i desir suoi.