I sec. d. C.
Ovidio, I Fasti, Libro II, 155-192
Callisto era una ninfa del coro divino tra mezzo
le Amadríadi e la cacciatrice Diana,
di cui toccando l’arco, diceva: “Quest’arco, che tocco,
faccia testimonianza della purezza mia.”
Diana la donò; e “Serba, le disse, la fede
che giuri e sarai prima tra le compagne mie.”
E l’avrebbe serbata, se graziosa non era:
si guardò dai mortali; ma Giove la corruppe.
La dea tornava dopo uccise moltissime fiere
nel bosco e a mezzo il corso il sol era o poc’oltre:
come toccò quel bosco – cupo di lecci frequenti,
dov’era una profonda fontana d’acque fresche -,
“O vergine Tegèa, qui ci laviamo!”, le disse.
Ella a quel falso nome di vergine arrossisce.
Lo disse anche alle ninfe, che si spogliarono: quella
si vergogna e tardando lascia pensar il male.
Si denuda: scoperta, per la gonfiezza del feto
è tradita dal peso del ventre che si vede.
“O di Licàone figlia spergiura”, le disse la dea,
“lascia i virginei cori né macchiar l’onde caste.”
La luna dieci vòlte empí con le corna la sfera:
colei chera creduta vergine divien madre.
Giunone offesa infuria, le muta l’aspetto di donna.
Che fai? Subí la forza di Giove mal suo grado!
E, come nella druda vide le brutte sembianze
di belva, disse: “Giove or vada ad abbracciarla!”
Colei ch’era poc’anzi amata dal massimo Giove,
orsa orribile errava per le montagne incolte.
Il figlio concepito di furto contava oramai
tre lustri, quando incontro gli si fece la madre,
che fuor di sé si ferma come se lo ravvisasse
e geme, e son lamenti le parole di lei.
L’avrebbe il figlio ignaro trafitta con dardo appuntito,
se non fossero stati rapiti entrambi in cielo.
Stelle vicine or splendono: Orsa si chiama la prima,
s’atteggia Artofilace come che segue a tergo.
Giunone infuria ancora e chiede alla candida Teti
che l’Orsa non si lavi nell’onde e non le tocchi.