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I sec. d.C.

Ovidio, Metamorfosi, libro II, 409-531

Mentre cosi andava e veniva più volte, rimase colpito da una vergine di Nonacre, e una fiamma gli si accese e divampò nelle ossa. Costei non era di quelle che passano le giornate a cardare e rendere soffice la lana o ad acconciarsi i capelli in modo sem­pre diverso. Quando una fibbia aveva fermato la sua veste e una bianca benda i capelli incolti, una volta preso in mano un gia­vellotto liscio, oppure un arco, era una perfetta soldatessa di Diana, e sul Mènalo mai era capitata una più cara a Diana Tri­via. Ma non c’è supremazia che duri a lungo.

Il sole, alto, era più che a metà del suotragitto, quando essa entrò in un bosco che mal nei secoli aveva conosciuto la scure. Qui depose dalla spalla la faretra, allentò l’arco flessibile, ed ec­cola sdraiata sul suolo ricoperto dall’erba, col capo poggiato sul­la faretra colorata.

Appena Giove la vide così stanca e indifesa, disse tra sé: “Di questa scappata almeno, mia moglie non saprà nulla. Ma anche se poi lo venisse a sapere, oh, prendersi degli improperi vale la pena, e come!” Subito assume l’aspetto e l’abbigliamento di Diana e dice: “O vergine, mia cara compagna, su che cime sei stata a cacciare?” La fanciulla balza su dalle verdi zolle e rispon­de: “Salute, o dea, che a mio parere, anche se lui mi sei più grande di Giove!”Egli ride, divertito a sentirsi preferire a se stesso, e la bacia in modo veramente un po’ violento, non co­me dovrebbe fare una vergine. E mentre essa si accinge a rac­contare in che bosco è andata a caccia, la blocca in un amplesso e compiendo il misfatto si rivela. Lei si ribella, si, quanto almeno può fare una donna (se tu la vedessi, Giunone, saressti più com­prensiva!); si, si ribella, ma quale fanciulla, o chi altro, potreb­be vincere il sommo Giove? Giove ritorna vincitore in cielo. Lei non vuol più vedere quel bosco, quegli alberi che sanno; andan­dosene di li, per poco non si scorda di riprendere la faretra con le frecce, e l’arco appeso a un ramo.

Ecco che Diana Dictinna, avanzando sull’alto Mènalo accom­pagnata dal suo seguito, tutta fiera della selvaggina uccisa, la scorge e, vistala, la chiama. Al sentirsi chiamare essa fugge, an­che per timore, in un primo momento, che non sia ancora Giove travestito. Ma poi, quando vede avanzare anche le ninfe, capi­sce che non c’è inganno, e si unisce al gruppo. Ahi, quanto è difficile non tradire la colpa col viso! Leva appena gli occhi da terra, e nemmeno si mette al fianco della dea come una volta, non è più la prima di tutta Ia schiera; tace, invece, e arrossendo fa trasparire l’offesa fatta al suo pudore. Se non fosse che è una vergine, Diana potrebbe intuire il misfatto da mille segni; le ninfe lo intuirono, si dice.

Per la nona volta la falce lunare rinasceva per chiudersi in un disco, quando durante una caccia la dea, spossata dalle vampe del Sole suo fratello, trovò un bosco freschissimo da dove un ruscello veniva giù bisbigliando, strusciando e voltolando la sab­bia. II posto le piacque, e con la punta del piede saggiò l’acqua. Anche questa le piacque, e allora disse: “Non c’è nessuno che ci veda: facciamo il bagno nude, irrorandoci d’acqua”.

La fanciulla della Parrasia arrossì. Tutte si tolgono i veli, lei sola cerca di prendere tempo. Siccome esita, le sfilano la veste, e levata questa, col corpo nudo si scopre anche la colpa. “Via di qui! — grida Diana Cinzia; — non profanare questa fonte sacra!” e le ordina di lasciare il suo seguito.

La consorte del gran Tonante aveva capito da un pezzo, ma aveva rinviato la punizione — punizione grave — a un momento più adatto. Ora non c’è più ragione di attendere: ecco infatti che alla rivale (altra ferita per Giunone) già è nato un bambino: Arcade. Appena appuntò gli occhi e la mente inasprita su que­sto fatto, la dea esclamò: “Davvero ci mancava anche questo, adultera, che tu restassi incinta e partorendo rendessi noto a tut­ti l’oltraggio fattomi e dessi la prova dell’indegna condotta del mio Giove! Me la pagherai, però, ché io ti toglierò questa forma di cui ti compiaci e per la quale piaci a mio marito, svergo­gnata!”

Così disse, e l’affrontò e l’afferrò davanti per i capelli e la gettò a terra bocconi. Quella tendeva le braccia implorando pie­tà: le braccia cominciarono a farsi ispide di nero pelame, e le mani a curvarsi e ad allungarsi in adunchi unghioni e a fungere da piedi, e il viso prima ammirato da Giove a deformarsi in un largo ceffo; e perché non commuovesse nessuno con suppliche e preghiere, le fu tolto il dono della parola: dalla gola roca esce un suono iracondo e minaccioso, che incute paura. Anche se fatta orsa, però, conserva la mente di prima e, manifestando la sua sofferenza con continui gemiti, leva le mani, anche se non più mani, verso il cielo e gli astri, intendendo, sebbene non possa dirlo, che Giove è stato ingrato. Ah quante volte, non osando riposarsi nella solitudine della selva, viene a vagare davanti alla casa e per i campi che un giorno furono suoi! Ah quante volte è inseguita tra le rocce dai latrati dei cani e fugge tremando — lei, la cacciatrice — per paura dei cacciatori! Spesso, vedendo delle belve, si nasconde dimenticandosi cosa è ora, e pur essendo or­sa rabbrividisce se scorge degli orsi sui monti, e si spaventa dei lupi, benché Licàone, suo padre, sia un lupo.

 

Ed ecco un giorno avanzare il nipote di Licàone, Arcade, ignaro della sorte toccata alla sua genitrice. Aveva ormai quasi quindici anni. Inseguiva la selvaggina, sceglieva gli anfratti più adatti e stendeva reti flessibili attorno alle selve dell’Erimanto, quando a un tratto s’imbatté nella madre. Essa trasali e si arre­stò, come lo vide, e parve proprio che lo riconoscesse. Lui arre­trò, spaventato — perché non sapeva — da quegli occhi che immo­bili lo fissavano senza fine, e quando essa accennò ad avvicinar­glisi, si preparava a trapassarle il petto con un dardo micidiale. L’Onnipotente lo impedì: li bloccò entrambi, e insieme bloccò il delitto, e sollevatili in aria con un vento veloce li collocò nel cielo facendone due costellazioni vicine.

Giunone andò su tutte le furie, quando la rivale cominciò a rifulgere nel firmamento, e discesa nel mare andò dalla bianca Teti e dal vecchio Oceano, che tanto rispetto incutevano gene­ralmente agli dei, e come essi le chiesero la ragione dl quella visita, cominciò:

“Volete sapere perché io, la regina degli dei, sono venuta qui dalle celesti dimore? Perché un’altra sta in cielo al posto mio! Si dica pure che sono bugiarda se, quando la notte avrà oscurato il mondo, non vedrete delle stelle appena assunte agli onori del sommo cielo (che offesa sanguinosa per me!) nel punto dove l’ultimo circolo, il più breve, ricinge l’estremità dell’asse. E chi ormai non vorrà offendere Giunone, chi avrà paura ad offendermi, visto che sono la sola che quando vuol fare del male non fa che del bene? Oh che gran cosa ho fatto! che gran potenza è la mia! Non la volevo più creatura umana: è diventata una dea! Così io infliggo le punizioni ai colpevoli, cosi è grande il potere mio! Può anche restituirle l’aspetto di prima levandole il muso di bestia, come ha già fatto con la parente di Foroneo, quella dell’Argolide! E anzi, perché non scaccia Giunone e non se la sposa, sistemandola nella mia camera e prendendosi Licàone come suocero? Voi però che mi avete allevato, se vi sentite offesi anche voi da questo spregio, impedite all’Orsa di scendere nei vostri gorghi azzurri, respingete quella costellazione accolta in cielo come prezzo di un adulterio, in modo che la sgualdrina non si immerga nelle acque pure”.­

 

 

I sec. d.C.

Ovidio, Metamorfosi, libro II, 409-531

Mentre cosi andava e veniva più volte, rimase colpito da una vergine di Nonacre, e una fiamma gli si accese e divampò nelle ossa. Costei non era di quelle che passano le giornate a cardare e rendere soffice la lana o ad acconciarsi i capelli in modo sem­pre diverso. Quando una fibbia aveva fermato la sua veste e una bianca benda i capelli incolti, una volta preso in mano un gia­vellotto liscio, oppure un arco, era una perfetta soldatessa di Diana, e sul Mènalo mai era capitata una più cara a Diana Tri­via. Ma non c’è supremazia che duri a lungo.

Il sole, alto, era più che a metà del suotragitto, quando essa entrò in un bosco che mal nei secoli aveva conosciuto la scure. Qui depose dalla spalla la faretra, allentò l’arco flessibile, ed ec­cola sdraiata sul suolo ricoperto dall’erba, col capo poggiato sul­la faretra colorata.

Appena Giove la vide così stanca e indifesa, disse tra sé: “Di questa scappata almeno, mia moglie non saprà nulla. Ma anche se poi lo venisse a sapere, oh, prendersi degli improperi vale la pena, e come!” Subito assume l’aspetto e l’abbigliamento di Diana e dice: “O vergine, mia cara compagna, su che cime sei stata a cacciare?” La fanciulla balza su dalle verdi zolle e rispon­de: “Salute, o dea, che a mio parere, anche se lui mi sei più grande di Giove!”Egli ride, divertito a sentirsi preferire a se stesso, e la bacia in modo veramente un po’ violento, non co­me dovrebbe fare una vergine. E mentre essa si accinge a rac­contare in che bosco è andata a caccia, la blocca in un amplesso e compiendo il misfatto si rivela. Lei si ribella, si, quanto almeno può fare una donna (se tu la vedessi, Giunone, saressti più com­prensiva!); si, si ribella, ma quale fanciulla, o chi altro, potreb­be vincere il sommo Giove? Giove ritorna vincitore in cielo. Lei non vuol più vedere quel bosco, quegli alberi che sanno; andan­dosene di li, per poco non si scorda di riprendere la faretra con le frecce, e l’arco appeso a un ramo.

Ecco che Diana Dictinna, avanzando sull’alto Mènalo accom­pagnata dal suo seguito, tutta fiera della selvaggina uccisa, la scorge e, vistala, la chiama. Al sentirsi chiamare essa fugge, an­che per timore, in un primo momento, che non sia ancora Giove travestito. Ma poi, quando vede avanzare anche le ninfe, capi­sce che non c’è inganno, e si unisce al gruppo. Ahi, quanto è difficile non tradire la colpa col viso! Leva appena gli occhi da terra, e nemmeno si mette al fianco della dea come una volta, non è più la prima di tutta Ia schiera; tace, invece, e arrossendo fa trasparire l’offesa fatta al suo pudore. Se non fosse che è una vergine, Diana potrebbe intuire il misfatto da mille segni; le ninfe lo intuirono, si dice.

Per la nona volta la falce lunare rinasceva per chiudersi in un disco, quando durante una caccia la dea, spossata dalle vampe del Sole suo fratello, trovò un bosco freschissimo da dove un ruscello veniva giù bisbigliando, strusciando e voltolando la sab­bia. II posto le piacque, e con la punta del piede saggiò l’acqua. Anche questa le piacque, e allora disse: “Non c’è nessuno che ci veda: facciamo il bagno nude, irrorandoci d’acqua”.

La fanciulla della Parrasia arrossì. Tutte si tolgono i veli, lei sola cerca di prendere tempo. Siccome esita, le sfilano la veste, e levata questa, col corpo nudo si scopre anche la colpa. “Via di qui! — grida Diana Cinzia; — non profanare questa fonte sacra!” e le ordina di lasciare il suo seguito.

La consorte del gran Tonante aveva capito da un pezzo, ma aveva rinviato la punizione — punizione grave — a un momento più adatto. Ora non c’è più ragione di attendere: ecco infatti che alla rivale (altra ferita per Giunone) già è nato un bambino: Arcade. Appena appuntò gli occhi e la mente inasprita su que­sto fatto, la dea esclamò: “Davvero ci mancava anche questo, adultera, che tu restassi incinta e partorendo rendessi noto a tut­ti l’oltraggio fattomi e dessi la prova dell’indegna condotta del mio Giove! Me la pagherai, però, ché io ti toglierò questa forma di cui ti compiaci e per la quale piaci a mio marito, svergo­gnata!”

Così disse, e l’affrontò e l’afferrò davanti per i capelli e la gettò a terra bocconi. Quella tendeva le braccia implorando pie­tà: le braccia cominciarono a farsi ispide di nero pelame, e le mani a curvarsi e ad allungarsi in adunchi unghioni e a fungere da piedi, e il viso prima ammirato da Giove a deformarsi in un largo ceffo; e perché non commuovesse nessuno con suppliche e preghiere, le fu tolto il dono della parola: dalla gola roca esce un suono iracondo e minaccioso, che incute paura. Anche se fatta orsa, però, conserva la mente di prima e, manifestando la sua sofferenza con continui gemiti, leva le mani, anche se non più mani, verso il cielo e gli astri, intendendo, sebbene non possa dirlo, che Giove è stato ingrato. Ah quante volte, non osando riposarsi nella solitudine della selva, viene a vagare davanti alla casa e per i campi che un giorno furono suoi! Ah quante volte è inseguita tra le rocce dai latrati dei cani e fugge tremando — lei, la cacciatrice — per paura dei cacciatori! Spesso, vedendo delle belve, si nasconde dimenticandosi cosa è ora, e pur essendo or­sa rabbrividisce se scorge degli orsi sui monti, e si spaventa dei lupi, benché Licàone, suo padre, sia un lupo.

 

Ed ecco un giorno avanzare il nipote di Licàone, Arcade, ignaro della sorte toccata alla sua genitrice. Aveva ormai quasi quindici anni. Inseguiva la selvaggina, sceglieva gli anfratti più adatti e stendeva reti flessibili attorno alle selve dell’Erimanto, quando a un tratto s’imbatté nella madre. Essa trasali e si arre­stò, come lo vide, e parve proprio che lo riconoscesse. Lui arre­trò, spaventato — perché non sapeva — da quegli occhi che immo­bili lo fissavano senza fine, e quando essa accennò ad avvicinar­glisi, si preparava a trapassarle il petto con un dardo micidiale. L’Onnipotente lo impedì: li bloccò entrambi, e insieme bloccò il delitto, e sollevatili in aria con un vento veloce li collocò nel cielo facendone due costellazioni vicine.

Giunone andò su tutte le furie, quando la rivale cominciò a rifulgere nel firmamento, e discesa nel mare andò dalla bianca Teti e dal vecchio Oceano, che tanto rispetto incutevano gene­ralmente agli dei, e come essi le chiesero la ragione dl quella visita, cominciò:

“Volete sapere perché io, la regina degli dei, sono venuta qui dalle celesti dimore? Perché un’altra sta in cielo al posto mio! Si dica pure che sono bugiarda se, quando la notte avrà oscurato il mondo, non vedrete delle stelle appena assunte agli onori del sommo cielo (che offesa sanguinosa per me!) nel punto dove l’ultimo circolo, il più breve, ricinge l’estremità dell’asse. E chi ormai non vorrà offendere Giunone, chi avrà paura ad offendermi, visto che sono la sola che quando vuol fare del male non fa che del bene? Oh che gran cosa ho fatto! che gran potenza è la mia! Non la volevo più creatura umana: è diventata una dea! Così io infliggo le punizioni ai colpevoli, cosi è grande il potere mio! Può anche restituirle l’aspetto di prima levandole il muso di bestia, come ha già fatto con la parente di Foroneo, quella dell’Argolide! E anzi, perché non scaccia Giunone e non se la sposa, sistemandola nella mia camera e prendendosi Licàone come suocero? Voi però che mi avete allevato, se vi sentite offesi anche voi da questo spregio, impedite all’Orsa di scendere nei vostri gorghi azzurri, respingete quella costellazione accolta in cielo come prezzo di un adulterio, in modo che la sgualdrina non si immerga nelle acque pure”.­