1561
GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, Venezia 1561, Libro II
Tempo fu già, ch' amava una fanciulla
Febo in Thessaglia, nata Larissea,
Che la beltà restar fatta havria nulla
Di qual si voglia in ciel superba Dea.
La vede il corvo un dì, che si trastulla
Con altro amante, e che ad Apollo è rea,
E và per accusar l'ingrata, e fella,
Che per nome Coronide s'appella.
Il corvo se ne va veloce, e presto,
Per accusar la donna, e non discorre
Se bene, ò male è per uscir di questo,
Ne in che periglio egli si vada à porre.
Di servire il padrone è bene honesto,
Ma non però dirgli ogni cosa occorre.
Hor mentre andava, il vide la cornacchia,
Che sempre volontier ragiona, e gracchia.
Ella, che 'l vede leggier come un vento
Con tanto studio il suo camin spacciare,
Subito prese indicio, et argomento,
Che qualche gran negotio andasse à fare.
È de le donne universale intento
Volere i fatti altrui sempre spiare,
Ond'ella per servare il lor costume,
Fè sì, ch'al corvo fe raccor le piume.
Dopo molto pregar trovato un faggio
Fermollo, dove il suo pensier intese.
Mal fia, disse, per te questo viaggio
Corvo, se questo error tu fai palese.
Perche ne buon non si può dir, ne saggio,
Quel, che procura scandali, e contese.
Non sò, perche dir vogli un fatto tale,
Che non ne può succeder se non male.
Per quel, che da i più savij odo, et osservo,
(Cosa prima da me mal custodita)
Se ben tu sei d'Apollo augello, e servo,
Non però dei scoprir l'altrui partita:
Tenuto sei, se qualche empio, e protervo
Gli machina nel regno, ò ne la vita;
Poche altre cose un buon servo dè dire,
E molte men se mal ne puote uscire.
Ó quanti quanti per l' inique corti
Pensando d'acquistar benevolenza,
E per mostrar d'esser sagaci, e accorti
Parlando in danno altrui sempre in absenza,
Imparan poi quel, che il lor dir importi,
Che n' hanno universal malevolenza,
E ne restan scherniti, e vilipesi,
E ben tu 'l proverai, se ciò palesi.
E se conoscer vuoi, che non sta bene,
E che senza alcun dubbio erra colui,
Che dice più di quel, che gli conviene,
Ricerca quel, ch' io sono, e quel ch' io fui;
E 'l mal intenderai, c'hor me ne viene,
Per voler troppo esser fedele altrui,
Ch'esser dovrei norma, et essempio à molti,
Sì come intenderai, se tu m'ascolti.
(…)
Sorride il corvo udendo la cornacchia,
Che fa profession d'indovinare,
E dice, à posta tua cicala, e gracchia,
Ch'io non stimo il tuo augurio, e 'l tuo gracchiare.
Da l'arbor, dove sta, tosto si smacchia,
S'affretta, e giunge al fin del suo volare:
Trova il padrone, e gli racconta, e dice
Quel, che gli havea vetato la Cornice.
Ahi come à l' intelletto il lume ammorza
La gelosia, e l'huom fa cieco, e stolto.
Già Febo offesa ha l'anima, e la scorza;
Gli trema il cor, gl'impallidisce il volto.
Lascia il plettro cader, perde la forza.
Gli cade il lauro intorno al capo involto.
Con l'arme usate, ove il furore il guida,
Corre, e ritrova al fin l'amica infida.
L'arco nel pugno suo sinistro prende,
Con la destra lo stral nel nervo incocca,
Poi la saetta, l'arco, e l'occhio tende,
Tanto, che la sinistra il ferro tocca,
Apre la destra, e 'l nervo si distende,
L'arco si fa men curvo, e 'l dardo scocca,
Ch'à ferir dritto sibilando aspira
Là, dove l'occhio havea presa la mira.
La misera fanciulla, che si vede
Ferir dal primo amante, stride, e langue;
Si trahe dal petto il ferro, che la fiede,
E tinge il bianco corpo del suo sangue:
Poi disse, il corpo mio senza mercede
Febo potevi far restare essangue,
Ma pria lasciarmi parturir, perc'hora
Uccidi meco un tuo figliuolo anchora.
Quei fere, e quella con l'audace palma
Si toglie l'empie freccie da la vita.
Al fin si scioglie da quel nodo l'alma,
A cui sì breve tempo è stata unita.
De la già bianca, et hor purpurea salma
Tinta da più d'una mortal ferita
Si scarca l'alma, e'l corpo un freddo opprime,
Che ne la faccia sua la morte imprime.
S'accorge tardi del suo crudo eccesso
Il rigoroso arcier quando non giova:
E che tanto s'irasse, odia se stesso,
Odia l'augel, che gli portò la nova,
Odia l'arco, lo stral, la mano, e spesso
La tocca, e pur di rivocar fa prova
Lo spirto, che dimora in altra parte,
Oprando in van la medicina, e l'arte.
Ma poi, ch'apparecchiar vede la pira
Per arder il bel corpo di colei,
Ch'egli uccisa s'havea, geme, e sospira,
Più di quel, che conviensi à i sommi Dei.
Come giuvenca, che 'l vitello mira,
Ch'anchora il latte suol poppar da lei,
In terra andar da l'empia mazza morto,
Mugge, e si duol del figlio ucciso à torto.
Le diede Apollo al fin gl'ingrati odori,
E poi, che in braccio più volte l'accolse,
E fe l'ingiuste essequie à i morti amori,
Ch'ardesse il seme suo, patir non volse,
Trasse del corpo dell'estinta fuori
L'anchor vivo fanciullo, e in braccio il tolse,
E quindi il trasportò poi, che partissi,
À te saggio Chiron, perche 'l nutrissi.
Sperava il corvo guiderdone, e merto
Del vero suo, ma scandoloso aviso,
Ma d'un nero mantel ne fu coperto,
Per satisfare in parte al corpo ucciso.
Maledico, loquace, fatti esperto,
Se in mal non vuoi cangiar mantello, e viso:
S'in giudicio non sei per forza astretto,
Non iscoprir già mai l'altrui difetto.