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LODOVICO DOLCE, Le Transformationi, In Venetia, Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, Canti Quarto e Quinto, pp. 46, 48-49
Libro IV, p. 46
Non produsse Signor Thessaglia mai
Di Coronide Donna altra più bella:
Onde fu cara a Febo, e piacque assai,
E più uolte il buono dio giacque con ella.
Ma, perche rade uolte troverai
(Ne se ne sdegni alcun) Donna o Donzella,
Laqual d’un solo Amante si contente;
Coronide ad altrui volse la mente.
Ad un garzon fu del suo amor cortese
Non riguardando, ch’offendea il Sole.
IL Coruo alhor, che questo fatto intese,
Di scoprirlo al Signor del tutto uole.
E già per far l’effetto il camin prese:
Ma garrula e leggera, come suole,
La Cornice l’incontra; e a pena il uede,
Che doue fosse il suo uiaggio chiede.
(Corvo e Cornice)
(…) p. 48
Sorrise il Coruo: e questo augurio tristo
Sia pure contra di te, superbo disse.
A Febo quel, che di sua Donna ha uisto,
Racconta: e col suo dir tutto’l trafisse.
Al gran martir fu accompagnato e misto
Lo sdegno assai maggior, che mai sentisse:
E così d’ira avvelenato e carco,
Tosto in man prese e le Saette e l’Arco.
Poi, come Arcier, c’habbia ueduto il Ceruo
Semplice, che non sa d’esser offeso;
Ch’a l’orecchia de l’Arco il duro neruo
Acconcia; e poi che quel uede ben teso,
La Saetta ui pon crudo e protervo;
Onde resta il meschin ferito e preso.
Ma già son giunto a quella parte, ou’io
Di riposar, uostra mercè, disio,
Canto V p. 49
Ah quanto a graue error conduce l’ira,
L’huomo se la ragion non è possente
A spegner quel calor, che moue e tira
A uendetta crudel l’accesa mente:
Onde auuien poi, che in uan piagne e sospira;
E del commesso mal tardo si pente.
Ma lieue si può dir ogni furore
A rispetto di quel che causa amore.
A Febo la corona de l’allor
subito cadde de la bionda testa,
che l’importuno augello e mal canoro
La nuoua gli contò, che lo molesta.
Gli cadde anco di man la cetra d’oro;
Ne piu’l uiuo color nel fronte resta,
Con che, mentre a mortali il giorno mena,
Ogni cosa turbata rasserena.
Tutto ardendo di sdegno e di dispetto,
Com’io ui dissi, Arco e Saette prese;
E con una passo l’amato petto
Di colei, che le fu tanto cortese;
Quel, che spesso col suo legato e stretto,
L’anima e ‘l cuor ne le sue braccia rese.
L’afflitta donna a la percossa esangue
Si trasse il ferro, e n’usci fora il sangue.
Febo, s’io ti parea degna di morte
(Dice) non era già di perir degno
Quel, che del seme tuo la tua Consorte
Chiude nel uentre suo, misero pegno.
Hora egli meco oime con egual sorte,
Et io seco infelice a morte uegno.
Ma doppio honor di crudeltate haurai,
Che madre e figlio a un colpo moriri fai.
Così disse: e col sangue, onde si tinso,
Del bel candido sen l’anima uscio.
A questo il corpo freddo gelo cinse,
E a mezo’l corpo il suo camin finio.
Pentissi Apollo, e si gran duolo il uinse,
Che si chiama crudele, ingiusto, e rio.
Odia se stesso, e ‘l messager, da cui
Sen uenne il mal; che nocque ad ambedui.
Odia le mani, e le saette sdegna ;
E’l freddo corpo in uan solleva e prende.
Tenta in uan l’arti sue, tardo s’ingegna
Reuocar quel, che più morte non rende.
Fatto, quando gli par, che si conuegna;
Poi che d’esser Dio le lagrime contende,
Manda il dolente Dio, manda dal core
Sospir, ch’inditio fan del suo dolore.
Volle trovarsi a le sue esequie: e quelle
Fe di sua mano, il Rogo egli compose,
Ei chiuse l’amorose estinte stelle,
E’l corpo pien d’odori ad arder pose.
Ma pria, che quel si consumasse nelle
Fiamme, la stirpe sua ueder propose;
E uiua, se potesse indi ritrarla,
E, a qual essa si fosse, anco seruarla.
Trasse del uentre il bambinetto fuora,
(ch’un felice bambin u’era concetto)
E quel diede a nudrir tra piccol’hora
Ad un Centauro, che Chiron fu detto.
Il folle coruo, che speraua allora
Premio dell’adulterio a lui predetto,
Quel messager di Nunzio acerbo e fiero,
Fece, che diventò di bianco nero.