Corfc02

2-8 d.C.

OVIDIO, Metamorfosi, II, 531-632

Testo tratto da:http://www.miti3000.it/mito/biblio/metamorfosi.htm

 

Gli dei del mare acconsentirono. E Giunone risalì nel cielo limpido sull'agile carro trainato da pavoni screziati, screziati solo di recente, da quando era morto Argo, come di recente tu, che prima eri candido, corvo loquace, ti sei visto tutt'a un tratto mutare le ali in nere. E in verità questo uccello un tempo era d'argento con penne di neve, tanto da competere con le colombe immacolate, da non sfigurare di fronte alle oche, che avrebbero salvato dando l'allarme il Campidoglio, o ai cigni che adorano i fiumi. La lingua fu la sua rovina: per colpa della lingua loquace, il suo colore, da bianco qual era, ora è il suo contrario. Più bella di Corònide di Larissa in tutta l'Emonia non v'era nessuna; e tu ne fosti innamorato, nume di Delfi, finché fu casta o almeno non sospettata. Ma l'uccello di Febo scoprì l'adulterio e, per denunciare quella colpa segreta, già filava spedito, inesorabile delatore, alla volta del suo padrone. Con un battito d'ali gli è dietro, per sapere tutto, la cornacchia chiacchierona e, sentito il perché di quella corsa: "Viaggio pericoloso è il tuo", gli dice, "dai retta alle predizioni che ti faccio. Guarda me cos'ero e cosa sono e chiediti la ragione: scoprirai che a rovinarmi è stata la fedeltà. Tempo fa infatti Minerva rinchiuse Erictonio, fanciullo creato senza madre, dentro una cesta intessuta di vimini dell'Attica, che affidò alle tre vergini nate da Cècrope, quel mostro, con l'ordine che non cercassero di scoprirne il segreto. Da un olmo fitto, nascosta tra il fremito delle foglie, io spiavo cosa stavano facendo: due, Pàndroso ed Erse, mantengono fede all'impegno, ma la terza, Aglàuro, accusa le sorelle d'essere troppo paurose e con le mani scioglie i nodi: dentro vi scorgono il bambino e disteso accanto un serpente. Riferisco l'accaduto alla dea, e cosa ne ottengo in compenso? d'essere esclusa dalle grazie di Minerva e posposta all'uccello della notte! Di monito il mio castigo dovrebbe servire agli uccelli, perché non cerchino guai sparlando. Ma, dico, m'aveva cercato lei o no, senza che io le chiedessi niente, proprio niente? Puoi domandarlo a Pallade, a lei stessa: anche se è in collera, non potrà certo per la collera negarlo. Nella terra di Focide mi generò l'illustre Coroneo (son cose fin troppo note): una principessa, questo ero, e richiesta (non ridere di me) da ricchi pretendenti. La bellezza fu la mia rovina. Mentre a passi lenti vagavo, come al solito, sulla lingua di sabbia lungo la riva, il dio del mare mi vide e s'infiammò, e dopo che a pregarmi con parole di miele ebbe sprecato senza successo il suo tempo, pronto a farmi violenza m'inseguì. Io fuggo, m'allontano dalla riva compatta e arranco invano dove affondo nella sabbia. Invoco allora dei e uomini, ma la mia voce non giunge ad alcun mortale: solo una vergine per una vergine si commosse dandomi aiuto. Al cielo tendevo le braccia:e queste si facevano man mano nere di penne leggere; tentavo di strapparmi la veste dalle spalle: ma quella un manto di piume ormai era, che affondava radici nella pelle; cercavo di battermi con le mani il petto ignudo: ma ormai non avevo più mani, non avevo un petto nudo; correvo, e la sabbia non tratteneva più i miei piedi, come prima, ma mi libravo raso terra. Poi alta mi levo nel cielo e illibata, come compagna, vengo assegnata a Minerva. Ma cosa conta ormai questo, se mutata in uccello per un crimine orrendo, Nictìmene mi succede in questo onore? Non hai mai sentito dire (la cosa è risaputa in ogni luogo di Lesbo) che Nictìmene ha profanato il letto di suo padre? Anche lei ora è un uccello, ma consapevole della sua colpa, fugge sguardi e luce, celandosi fra le tenebre per la vergogna, e in tutto il cielo da tutti è scacciata". A tali chiacchiere: "Che un accidente ti prenda, te e le tue prediche!" sbottò il corvo. "Di presagi campati in aria me ne rido"; e proseguì nel cammino per riferire al suo padrone di aver visto Corònide stesa in braccio a un giovane dell'Emonia. Appreso il tradimento, al dio che l'ama cadde l'alloro dal capo, sbiancando in volto dalle mani gli sfuggì la cetra e col cuore in fiamme che traboccava d'ira afferrò al fianco le sue armi e, tendendo l'arco al limite estremo, con una freccia infallibile le trafisse il petto, quel petto che un'infinità di volte aveva stretto al suo. Colpita lei emise un gemito, strappò dal corpo il ferro, inondando di sangue purpureo le sue candide membra, e disse: "Prima di scontare la mia pena, Febo, potevo almeno partorire. Ora due in una moriremo!". Fu tutto, e col sangue si dileguò la vita: un gelo mortale invase quel corpo inanimato. Troppo tardi, ahimè, di quel crudele castigo si pente l'amante e si odia per avere ascoltato, per essersi così infuriato; odia l'uccello che l'ha costretto a scoprire il tradimento, causando il suo dolore, e odia l'arco, la sua mano e con la mano le frecce, quelle armi scagliate all'impazzata. Cerca di rianimarne il corpo esanime e di vincere la morte con rimedi estremi, ma all'arte medica ricorre invano. Dopo questi tentativi infruttuosi, quando vede che s'appronta il rogo e che quel corpo sta per essere cremato dalle fiamme, allora, sì, cavati dal fondo del cuore, prorompe in lamenti (non è concesso che il volto degli dei si bagni di lacrime), come la giovenca che davanti agli occhi vede il martello, librato all'altezza dell'orecchio destro, ridurre in pezzi con un colpo netto la tempia cava al vitello di latte. Ma dopo averle cosparso il seno di profumi per lei superflui, dopo averla abbracciata e averle reso gli onori per l'ingiustizia, Febo non si rassegnò che anche il suo seme si riducesse in cenere, e allora dal grembo della madre strappò il figlio alle fiamme e lo portò nell'antro di Chirone, l'ibrido centauro. Quanto al corvo, che si attendeva un premio per la sua franchezza, lo escluse dal novero degli uccelli bianchi.