1557 d.C.
M. GIOVANBATTISTA CINZIO GIRALDI, Dell’Hercole.
Stamperia De Gadaldini, Modena, 1557
CANTO I, facciata 5
STANZA 1
Che s’ad Euristeo ben Giunon porse
Tanto favor, c’Hercol gli fu soggetto,
Non potè però à lui giamai si opporse,
Che non gli armasse alto valore il petto,
Et, qualhor era de la vita in forse,
Vincitor non restasse al suo dispetto,
Che dal padre valor tanto hebbe, et senno,
Quanto ad huom mai le stelle amiche denno.
STANZA 2
Questo vide Giunon non men dolente,
Che s ‘Hercol nato prima havesse visto,
Et voltò tutto il cor, tutta la mente
A farlo cos misero, et s tristo,
Che inanzi ch’egli fusse si possente,
Che far potesse d’alto honore acquisto,
Restasse morto, ò ne l’oblio s immerso,
Che mai non si nomasse in prosa, o’n verso.
STANZA 3
Quindi chiamò il Timore, il quale impresse
Tal tema ne la donna, che temette,
Che morte Amphitrion suo no le desse,
Poi che Giove con lei tre notti stette,
Perche quel figlio d’ambi lor nascesse,
C’haver devea virtu tanto perfette,
Et diè à vederle, empiendola di tedio,
Ch’uccidere il figliuol era il rimedio.
STANZA 4
Parer le fà, che’n guisa il duol distempre
Il marito, che s’egli gli occhi volve
Ad Hercol, cosa non trovi, onde tempre
Lo sdegno, in lui l’alto disnor l’involve,
Parer le fà, che se non vedrà sempre
Il fanciul, per lo quale ei si risolve
Uccider la mogliera, gli sia tolta
La cagion, che la mente à ciò gli ha volta.
STANZA 5
Qual huom, cui lunga maninconia prema,
Et habbia ne la mente sua compreso
Cosa piena d’horror, piena di tema,
Onde si trovi notte, et di più offeso,
Che sempre teme, et mai non sà che tema,
Et vive il tempo suo tutto sospeso,
né giova ch’altri s’affatichi in dirgli
Speme, che il timor possa del cor trargli.
STANZA 6
Tal Alcumena, misera, infelice,
Poi che da tema tal l’alma oppress’have,
Ove per Hercol si credea felice,
Sente di gran dolor salma s grave,
Che aspetta d’hor, in hor la mano ultrice,
Che la morte le dia, di ch’ella pave,
Et si dispone, per dare al mal riparo,
Cacciar di questa vita il figliuol caro.
STANZA 7
Et, senza ad alcun dir di ciò parola,
Senza mai dar del suo concetto indicio,
Ne la sua stanza si ridusse sola,
Per essequir l’imaginato officio,
T imor, che la ragion tutto l’invola,
Si che’n se non hà punto di giudizio,
Fà che d’esporre il fi glio si delibra
In loco, ove sia roso à fibra, à fibra.
STANZA 8
Tre volte pose il pie fuor de la soglia,
per portare il figliuol ne la campagna,
Et tre volte, tremando come foglia,
O come abbandonata, et timid’agna,
La misera cangiò pensier, et voglia,
Come ch’in dubbio stato si rimagna,
La materna pietà in lei combattea
Col gran timor, che del marito havea.
STANZA 9
Alfin tutta tremante, et tutta mesta,
Come chi cosa paventosa faccia,
Se ne porta il fanciul ne la foresta,
Col tristo core, et con dolente faccia,
Et in un verde cespo di ginestra
Il pone, il ciel pregando che gli piaccia
Far se possibil e che meglio avenga
Al suo figliuol, che rea morte sostenga.
STANZA 10
Et, dati mille baci al miserello,
Disse, Poi che il destin si fieri sproni
Mi hà al fianco, che mi è forza à caso sello
Esporti, et qui il ciel vuol, ch’io t’abbandoni,
Pria che ti mangi lupo, ò stracci augello,
Da la tua madre habbi gli ultimi doni,
Questi pianti, ch’à gli occhi invia dal core
L’incredibil cagior del mio dolore.
FACCIATA 6
STANZA 1
E cos detto, a casa fè ritorno
Via più che fusse mai dolente, e’ afflitta,
Pallade, ch’attendeva la notte, è il giorno,
Ch’a Giunon l’opra ria fusse interditta
Perche restasse alhor piena di scorno,
S’e ne scese dal ciel, per strada dritta,
Et, tratto il suo fratell fuori d’impaccio,
Per lo cielo lo portava à casa in braccio.
STANZA 2
E passando Giunone indi à ventura,
Vede ch’in braccio have il fanciul Minerva,
Et, vista, la sua nobile figura,
Et quel divin, ch’egli nel viso serva,
Si ferma alquanto, et fatta assai men dura,
Quasi si duole d’essergli proterva,
Et dice, Come hà questi Giove padre,
Perche Giunon non gli potea esser madre?
STANZA 3
Ma volse che nascesse d’adulterio
Giove s raro figlio del tuo seme,
Et mi fusser d’etterno vituperio
Le doti, che egli diede alte, e’ supreme,
Pallade, che conosce il desiderio
Di Giunon, che tra se tacita geme,
Fà tanto, che le mamme del sen tratte
Pone in bocca al fanciullo, et gli dà il latte.
STANZA 4
Egli, succiando il latte, in guisa strinse
La mamma alla matrigna, che le venne
La lagrima sù l’occhio, anchor che finse
Nulla sentire, e’n in dolor rattenne,
La fiera ambascia al fin la costrinse,
Che il suo duro succiar più non sostenne
Et, qual donna, cui d’ira il cor trabocca,
Gli trasse la mammella dalla bocca.
STANZA 5
Dicendo, Il fanciullo piu di me saggio,
Che matrigna mi sente, et men dà il merto,
Et degnamente soffro questo oltraggio,
Poi che il sentier di offendermi gli hò aperto,
Ma, se cortesia adesso usata gli haggio,
Se gli hò il mio latte col mio danno offerto,
La piaga curerò con tale empiastro,
Che sia noto ad ognun ch’ei m’è figliastro.
STANZA 6
Nel trar che de le labra al fanciullo fece
Giunon le poppe, il suo latte si sparse,
Onde parte del ciel di quel in fece,
E’n un momento la via lattea apperse,
D’una goccia, che’n terra andò, si fece
Il giglio e’ alhor cos mirabil parse
Quel fiore à oguno, et cos rar cosa,
Che il disser di Giunone esser la rosa.
STANZA 7
Pallade andò à la madre afflitta tanto,
Quanto mai donna, et, con allegra voce,
Pon fin, le disse, à le querele, al pianto,
Et al dolor, c’hor si t’affligge, et cuoce,
Che fatte hà di Giunone il padre santo
L’insidie vane et da la morte atroce
Tolto hà il tuo filgio, del qual sù la terra
Non fu, ne sia il maggior in pace, o’n guerra.
STANZA 8
Et però il sommo padre, ond’egli nacque
Vuol, che da te sia con amor notriro
Et che non tema, che sebben si giacque
Egli teco, sia irato il tuo marito,
Ma Giunone spietata, cui dispiacque
Veder Giove, per te, da lei partito,
Con modo occulto, et disusate guise,
Questo vano timor, nel cor ti mise.
STANZA 9
Per fatti à morte espor, com’espost’hai,
Il figlio, ch’al mondo unico esser deve,
Però, poi che l’inganno aperto sai,
Non è che più vano timor t’aggreve,
Ma dei dar bando al duol, dar bando à i guai,
Vivendo lieta questa vita breve,
Et, questo detto, nel petto spirolle
Virtù, ch’ogni timore undi scacciolle.
STANZA 10
Qual madre, che vista’habbia la procella
Nel tempestoso mar più che mai ria,
Et udita da alcuno Habbia novella,
Che ne l’onde il figliuol caduto sia,
Et, spinta dal dolor, che la flagella,
Per vederlo almeno morto, al mal si invia,
Et, se vivo l’incontra, n’ha tal gioia,
Che da se scaccia ogni dolore, et noia.