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Autore:
Datazione: fine III sec. d.C.
Collocazione: Damasco, Musée National de Chahba
Committenza:
Tipologia: mosaico
Tecnica:
Soggetto principale:
Soggetto secondario:
Personaggi: Aion, Tropai, Gea, Karpoi, Trittolemo, Georgia, Notos, Euros, Zefiro, Borea, Drosoi, Prometeo, Protoplastos, Mercurio, Psiche, Minerva o Venere(?), Anima (?)
Attributi: cerchio zodiacale, nudità (Aion); corona di fiori, frutta, corona vegetale, spiga, capo coperto, corona di fiori e frutta, capretto (Tropai rivedi); cornucopia (Gea); coruncopia, frutti (Karpoi); guance rigonfie (Notos, Euros, Zefiro, Borea); anfore rovesciate (Drosoi); bue dal lavoro (Trittolemo); Protoplastos, canestro pieno di argilla, nudità, barba lunga (Prometeo); caduceo, petaso (Mercurio); ali di farfalla (Psiche); capo velato (Anima)
Contesto:
Precedenti:
Derivazioni:
Immagini:
Bibliografia: Will E., Une nouvelle mosaïque de Shahba-Philippopolis, in “Annales Archéologiques de Syrie”, 3, 1953, pp. 27-48; Festugière A. M. J., La mosaïque de Philippopolis et les sarcophage au “Prométhée”, in “Revue des Arts", 7, 1957, pp. 195-202; Marabini Moeus M. T., ad vocem Aion, in Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, Treccani, Roma 1958, vol. I, pp. 175-176; Charbonneaux J., Aiôn et Philippe l’Arabe, in “Mélanges d’archéologie et d’histoire", 72, 1960, pp. 253- 272; Quet M. H., La mosaïque dite d’Aiôn de Shahba-Philippopolis, Philippe l’Arabe, et la conception hellène de l’ordre du monde an Arabie à l’aube du christianisme, in “Cahiers Glots”, X, 1999, pp. 269-330; Quet M. H., Le Triptolème de la mosaïque dite d’Aiôn et l’affirmation identitaire hélléne à Shahba-Philippopolis, in “Syria”, LXXVII, 2000, pp. 181-200
Annotazioni redazionali: Il mosaico, proveniente da Shahba-Philippopolis, colonia romana fondata dall’imperatore Filippo I l’Arabo nel 244 d.C., è stato rinvenuto in una casa privata chiamata “Casa Aoua” nel quartiere sud-est della città (Quet, 1999); databile al III sec. d.C., il pavimento mostra una rappresentazione molto complessa e ricca di personaggi, il cui significato è stato interpretato principalmente in relazione alla riflessione sul destino dell’uomo, tematica che lo accomuna a diversi sarcofagi romani dello stesso periodo (Cfr. scheda opera 13, scheda opera 14 e scheda opera 15). Il riquadro centrale del mosaico è incorniciato da un motivo geometrico a greca a nastro unico, circondato a sua volta da una larga fascia bianca ornata da piccole fasce nere. I numerosi personaggi che popolano la scena sono per la maggior parte riconoscibili grazie alle iscrizioni poste loro al di sopra e si presentano come suddivisi in tre gruppi tematici strettamente connessi tra loro attraverso gli atteggiamenti e gli sguardi reciproci. Sulla sinistra, si trova Aion, rappresentazione del Tempo assoluto – in contrapposizione con Chronos, il tempo particolare di ogni singola vita umana (Marabini Moeus, 1958) -, seduto, il torso nudo e le gambe coperte da un drappo, una fascetta a cingergli la fronte, tiene una ruota zodiacale. Dietro di lui, quattro figure femminili alate, accompagnate dall’iscrizione Tropai, simboleggiano le Stagioni in relazione però con gli eventi equinoziali e solstiziali, attraverso i consueti attributi: la prima da sinistra infatti ha la testa coronata di fiori e porta dei frutti, la seconda una corona vegetale sul capo e una spiga nella mano destra, la terza il capo coperto dal mantello ed infine la quarta una corona di fiori e frutta ed un capretto nella mano sinistra. Al centro, Gea semidistesa, con il petto nudo e le gambe, di cui si scorge solamente il piede destro, coperte da un himation, ha la testa cinta da una corona di fiori, frutta e spighe di grano e la capigliatura acconciata con un kalathos su cui è fermato un velo bianco che le ricade sulla schiena. Tale iconografia, in particolare la presenza del velo, è associata da Will (1953) a quella della dea Atargatis, aspetto che rivela il carattere siriano della rappresentazione, mentre Quet (2000) ricorda che il kalathos è attributo delle divinità preposte alla fecondità nell’Oriente romano. Con la mano destra Gea sostiene una cornucopia, mentre la sinistra è posta sotto il seno; intorno quattro bambini, nudi, ma con drappi panneggiati sulle spalle o sulle gambe, la testa coronata di fiori, sono designati dall’iscrizione come Karpoi e circondano la dea divisi due a due. Sulla destra, quello più interno volge lo sguardo verso lo spettatore così come il suo compagno che è appoggiato al ginocchio sinistro della dea, ed entrambi portano dei frutti, loro elemento distintivo, all’interno di canestri; sulla sinistra, uno è poggiato sulla spalla destra di Gea e sembra quasi curiosare all’interno della cornucopia che ella sostiene, l’altro si avvicina gravato dal peso di una seconda cornucopia. Un po’ più in alto, in secondo piano, una figura femminile vestita di un mantello fermato sulla spalla sinistra che le lascia il petto nudo, i calzari ai piedi ed un petaso sul capo, una zappa appoggiata alla sua spalla destra, è stata riconosciuta come Georgia grazie all’iscrizione che la accompagna, dato che si tratta dell’unica rappresentazione conosciuta di questa personificazione dell’Agricoltura. Accanto, si trova Trittolemo, vestito di tunica ed himation, sulla testa un petaso simile a quello indossato da Georgia, tiene per le briglie un bue, nella mano destra il pungolo. Sopra le loro testi due putti (i Drosoi secondo l’iscrizione, i geni della rugiada secondo la lettura di Will) che versano dell’acqua da due otri e alle estremità i quattro venti, riconoscibili dalle guance gonfie per lo sforzo di soffiare dell’aria: Notos ed Euros, giovani ed imberbi, a sinistra e Zefiro e Borea, barbuti e maturi, a destra. Sulla destra della scena, Prometeo, barbuto e nudo, ma con un himation a coprirgli parzialmente le gambe, è colto nell’atto di modellare con l’argilla, che tiene nella mano sinistra (un cestino pieno di questa terra si trova lì vicino, elemento tipico delle scene di creazione presente anche nelle fronti di diversi sarcofagi; (Cfr. scheda opera 13, scheda opera 14 e scheda opera 15), il primo uomo sotto forma di una statuetta di piccole dimensioni. Alle sue spalle, una donna con il busto nudo, ma con un himation a coprirle il ventre, osserva attentamente il suo lavoro; potrebbe trattarsi della dea Minerva, sempre presente nelle scene che illustrano la creazione dell’uomo, ma si è parlato anche della dea Venere poichè la figura ricorda un tipo di Afrodite del IV secolo (Will, 1953 il quale afferma però che non è possibile un riconoscimento definitivo) o di una rappresentazione allegorica della Preveggenza prometeica di cui parla Luciano di Samosata (Promfc32) nel Prometheus es in verbis (Quet, 2000). Al di sopra, Mercurio, caratterizzato dal tradizionale caduceo, in testa una fascetta munita di ali, conduce con la mano destra una piccola Psiche con le ali di farfalla che, attraverso il gesto delle mani, la sinistra con il palmo rivolto verso l’osservatore e la destra sollevata verso l’alto, manifesta il consueto gesto di repulsione che si ritrova in diversi sarcofagi romani (Cfr. scheda opera 13, scheda opera 14 e scheda opera 15). Alla destra di Mercurio, una donna velata, priva di iscrizione, è interpretata generalmente come Anima. Festugière (1957) sottolinea come per alcuni Anima è rappresentata nel momento in cui entra nel corpo dell’uomo, secondo altri nel momento di uscirne con la morte. Quet, (1999) invece la accosta a quelle figure velate rappresentate agli Inferi o da lì ritornate indietro, come Alcesti, e propone di interpretarla come un’ombra privata della vita, piuttosto che come Anima. Proprio la densità di significati dell’immagine ha portato la critica a soffermarsi su diversi aspetti e a dare letture del mosaico anche molto contrastanti tra loro. Un primo punto di dibattito è fornito dalla composizione che, secondo Will (1953), il primo studioso a pubblicare il mosaico, è data dall’accostamento dei personaggi per analogia, ma senza costituire un vero e proprio sistema significante, sebbene sia evidente una concezione studiata, come indica la presenza delle iscrizioni per garantire il riconoscimento. La presenza di numerosi personaggi, alcuni dei quali non figurano mai nella stessa rappresentazione, deriverebbe da un accostamento meccanico di tematiche differenti, conosciute da secoli, forse sull’esempio di opere d’arte diverse, tematiche comunque incentrate sulla glorificazione della Terra. Festugière (1957), al contrario, ritiene che il mosaico costituisca un sistema coerente che forma una sorta di trittico e vi legge una metafora della vita umana attraverso i suoi momenti più significativi: la nascita, adombrata miticamente attraverso l’opera prometeica, e la morte, simboleggiata dal gesto di Mercurio psicopompo di estrarre l’anima dal corpo. La presenza di Aion, caratteristica di questo mosaico, conferisce un senso di ciclicità assoluta del tempo che, in profonda relazione con le Stagioni segna l’esperienza umana all’interno del più ampio ciclo naturale. Inoltre, la significativa presenza di Gea, accompagnata dai Karpoi, non è solamente un’allusione alla caducità dell’uomo nel suo aspetto corporale, per altro tema non particolarmente felice per un rilievo funebre, ma è da leggere anch’essa alla luce della presenza di Aion: Gea infatti rappresenta la Terra, il cui ciclo vitale è regolato da Aion in eternità felice e feconda, in cui l’uomo è chiamato a ricoprire il suo ruolo precipuo e insostituibile di amministratore, ma anche ammiratore, delle sue bellezze, in un simbolismo raffinato che è espressione della cultura della società borghese siriana. L’eternità della Terra, attraverso il ciclo delle Stagioni, garantisce anche all’uomo, la cui esperienza è necessariamente limitata dagli eventi naturali di nascita e morte, un senso profondo per il significativo segno che il suo operato lascia nel mondo, manifestato dalla presenza di Georgia e Trittolemo che in particolare rappresenta l’uomo. L’esperienza umana è quindi segnata dalla positività, nonostante la morte, ed il gesto di repulsione tipico di Psiche è indice di un momentaneo smarrimento di fronte alla dirompente esperienza del transito che però, proprio in virtù dell’eternità del mondo, deve essere accolta serenamente dal saggio. In seguito Charbonneaux (1960), pur accogliendo in certa misura le indicazioni di Will e di Festugière, rilegge l’intera composizione alla luce della propaganda imperiale che mirava a riconoscere nella figura dell’imperatore il dispensatore dei beni che la Terra garantisce all’uomo. Attraverso il confronto con alcune monete dell’epoca di Adriano, lo studioso individua nel mosaico i concetti di Aeternitas e Fecunditas legati alle virtù imperiali. La connessione con la figura dell’imperatore è garantita dal riconoscimento del ritratto di Filippo l’Arabo sotto le spoglie di Aion, identificazione che costituisce un tratto caratteristico e proprio della concezione imperiale romana, legato inoltre al concetto di perennità della dinastia, e che ben si addice ad un imperatore di una dinastia recente che celebrò il millenario della fondazione di Roma nel 248. Infine l’eternità della figura imperiale è strettamente connessa con il culto alla dea Venere che, nel suo legame con la città di Roma, ne garantisce a sua volta la perennità; in questo contesto interpretativo, Charbonneaux riconosce nella figura femminile che osserva Prometeo, non la tradizionale Minerva, bensì la dea Venere. Recentemente la Quet si è occupata del mosaico, puntualizzando alcuni aspetti significativi dell’iconografia dei diversi gruppi, in relazione al contesto storico e culturale che lo hanno prodotto. Innanzitutto la studiosa rifiuta il riconoscimento di Filippo l’Arabo sotto le spoglie di Aion, proposto da Charbonneaux, attraverso un confronto sistematico con i ritratti presenti sulle monete dell’epoca nei quali ha notato l’assenza di un tipo caratteristico nella raffigurazioni di questo imperatore, sottolineando il carattere maggiormente ellenizzato delle rappresentazioni destinate ad Antiochia, Heliopolis e Philippopolis. Allo stesso modo le figurazioni allegoriche che Charbonneaux riteneva analoghe a quelle presenti nel mosaico, come l’Aeternitas e l’Abundantia, sono ricondotte dalla Quet al loro originario contesto storico, diverso appunto da quello in questione, come dimostra la differenza iconografica delle diverse scene che è portatrice necessariamente di una differenza di significato. Aion poi non allude all’Eternità, concetto peraltro non legato alla cultura classica, bensì alla durata eterna dello svolgimento dei cicli cosmici in relazione al gruppo che si trova alle sue spalle, le Tropai, che devono essere interpretati non tanto in chiave stagionale, quanto in connessione con i segni zodiacali nei quali avvengono solstizi ed equinozi. Nel gruppo risalta significativamente la quarta figura da sinistra, coronata di fiori e frutta e con un capretto in mano: si tratta della rappresentazione dell’equinozio di primavera che avviene a Marzo (Quet, 2000). A tal proposito Quet (2000) si domanda se la presenza della Tropé equinoziale di primavera non rinforzi il significato cosmologico di Aion in quanto nel mese di Marzo il sole entra nel segno dell’ariete che era considerato dagli antichi “princeps signorum”, secondo Nonno di Panopoli. Inoltre propone un riferimento alla fonte anonima del XIII Oracolo Sibillino che, sottolineando proprio i segni zodiacali legati alla primavera, farebbe riferimento alla condizione astrale legata alla fondazione della città di Philippopolis. Forse la presenza della Tropé equinoziale di Marzo allude ad un avvenimento avvenuto in quel mese durante il regno di Filippo l’Arabo, forse proprio la sua ascesa al trono nel 244 oppure la celebrazione del millenario di Roma celebrato nel 248. Il gruppo centrale, rappresentazione della celebrazione della fecondità della terra, costituisce il centro significante del mosaico attraverso la presenza di due personaggi insoliti che sono stati a lungo considerati secondari, ma che occupano un posto importante all’interno del quadro interpretativo della Quet. Si è già detto come Georgia sia un unicum iconografico, bisogna però sottolineare come questa personificazione dell’agricoltura sia colta in una situazione di calma, apparentemente infatti la donna non fa nulla se non volgere lo sguardo verso Prometeo che plasma il primo uomo. La sua presenza, volta apparentemente a rinforzare il concetto espresso attraverso la presenza di Trittolemo, ha invece lo scopo di significare che la fecondità della terra è opera di diversi fattori concomitanti: gli agenti atmosferici che garantiscono la crescita delle colture, rappresentati dai Venti e dai Drosoi, ma anche l’Agricoltura che è costituita dal lavoro dell’uomo, come indica la presenza del bue, ma è un lavoro che rende l’uomo felice, proprio come dimostra l’atteggiamento di Georgia (Quet, 1999). È evidente inoltre come il riferimento alla fertilità della terra sia da ricondurre alle condizioni geografiche del territorio: la valle di Hauran era infatti il granaio della Siria e fonte di ricchezza per i possidenti di Philippopolis. In questo contesto interpretativo, la figura di Trittolemo acquisisce un ruolo primario; personaggio centrale nella cultura greca classica e in quella romana, che gli conferì nuovi significati, tradizionalmente Trittolemo è l’emblema della civilizzazione in quanto portò il grano, dono di Demetra, agli uomini. Bisogna notare però come nel mosaico non sia rappresentato secondo l’iconografia classica come seminatore su di un carro condotto da serpenti alati, bensì come lavoratore che conduce il bue, vestito con vesti contemporanee e non connotato dalla seminudità eroica. Nel II e III secolo l’eroe eleusino è investito di nuovi valori nel mondo romano: diviene l’inventore dell’aratro e del bue da lavoro e la sua opera non è più confinata in una passato mitologico, ma si estende fino ai giorni attuali sotto il segno dell’impero romano, continuatore della sua opera di civilizzazione. L’inserimento di questo personaggio, che racchiude in sé aspetti greci e romani, ha la valenza di conciliare i due mondi portatori di cultura, ma soprattutto di sottolineare l’alto valore del lavoro agricolo in opposizione alle concezioni delle nascenti sette gnostiche e cristiane che lo consideravano una punizione divina riconducibile al peccato originale. Questa sfumatura religiosa acquisisce maggiore chiarezza guardando alla scena della plasmazione del primo uomo, denominato dalla didascalia Protoplastos, termine utilizzato negli scritti cristiani e dei Padri della Chiesa, mentre nel mondo pagano si utilizzava il termine Plasma. Inoltre questo primo uomo è animato dalla pagana Psiche attraverso Mercurio e non dal soffio vitale del Dio biblico e sono inoltre assenti riferimenti alla sorte futura dopo la morte, in opposizione proprio alle dottrine cristiane della creazione e dell’attesa di un Messia salvatore. In questo modo il mosaico si inserisce all’interno di un dibattito molto acceso all’epoca se si considera che la creazione e l’animazione dell’uomo erano portate in scena attraverso le pantomime, come ci racconta Porfirio (Promfc38), tanto che Quet (2000) avanza l’ipotesi che fossero state rappresentate durante gli Acta Dusaria celebrati da Filippo l’Arabo, forse in un contesto più ampio che alludeva all’eternità dei cicli cosmici e alla fecondità della terra. A Bostra inoltre si tenne, proprio durante il regno di Filippo, un sinodo cristiano per dibattere la questione della sorte dell’anima tra la morte e la successiva resurrezione, dato che per alcune sette l’anima periva insieme al corpo per poi appunto risorgere, concezione eretica che Origene, secondo il racconto di Eusebio di Cesarea, riuscì a confutare. Allo stesso modo, il gruppo di Aion, rappresentativo della durata eterna del mondo, durata la cui regolarità è garantita dalla presenza delle Tropai, si oppone all’attesa cristiana della fine dei tempi così come la celebrazione della fertilità della terra attraverso il lavoro dell’uomo, considerato pienamente positivo, si confronta con la concezione biblica della vita umana profondamente segnata dal peccato originale. L’intera composizione è quindi un segno della permanenza dei valori propri della cultura classica rispetto alle nuove dottrine cristiane, valori che lo stesso Filippo, profondamente filoellenico, voleva che fossero promossi durante il suo regno (Quet, 2000).
Silvia Trisciuzzi