1609
FRANCESCO BACONE, De sapientia veterum, Cap. XXVI
Testo tratto da: Bacone F., Sapienza degli antichi, introduzione, traduzione, note e apparati di Marchetto M., Bompiani, Milano 2000.
Cap XXVI. Prometeo o lo stato dell’umanità
Narrano gli antichi che l’uomo fu opera di Prometeo e che fu fatto di fango; solo che Prometeo mescolò alla sua massa particelle dei diversi animali. Egli volle poi proteggere la propria opera con qualche beneficio, per non sembrare soltanto il fondatore del genere umano, ma anche il suo accrescitore: salì di nascosto fino al cielo, portando con sé un fascio di arbusti di ferula, con i quali, avvicinati al carro del sole e incendiati, portò il fuoco sulla terra, per condividerlo con gli uomini. Si racconta che che di un così grande beneficio gli uomini furono poco grati a Prometeo. Anzi, cospirarono contro di lui, chiamandolo in giudizio davanti a Giove insieme alla sua scoperta. L’accusa non fu accolta come potrebbe sembrare giusto; essa, infatti, piacque molto a Giove e agli dei, che ne furono così compiaciuti da concedere non solo l’uso del fuoco agli uomini, ma da offrire loro anche un nuovo dono, il più gradito e desiderabile di tutti: l’eterna giovinezza. Essi, imbaldanziti e sciocchi, caricarono il dono degli dei su di un asinello. Durante il ritorno l’asinello fu preso da una sete opprimente e violenta e, quando giunse a una fonte, il serpente postovi a guardia gli proibì di bere, a meno che non avesse voluto dargli in cambio ciò che portava sul dorso, qualunque cosa fosse. Il misero asinello accettò la condizione, e così la possibilità di prolungare la giovinezza, in cambio di un piccolo sorso d’acqua, passò dagli uomini ai serpenti.
Ma Prometeo non rinunciò alla propria malizia: riconciliatosi con gli uomini dopo che avevano perduto il loro premio, con l’animo irritato contro Giove, non temette di ricorrere all’inganno persino nei sacrifici.
Una volta, si dice, immolò a Giove due tori, in modo tuttavia che nella pelle dell’uno fossero racchiusi anche la carne e il grasso dell’altro, e la pelle di quest’ultimo, invece, fosse imbottita soltanto di ossa; quindi, religioso e benevolo, concesse a Giove di scegliere. Giove, maledicendo la sua scaltrezza e malafede, ma trovata l’occasione per vendicarsi, scelse il toro dello scherno; voltosi a far vendetta , accorgendosi di non poter reprimere l’insolenza di Prometeo se non recando danno anche al genere umano (l’opera di cui egli andava immensamente fiero e si vantava, ordinò a Vulcano di dar forma ad una donna bella e avvenente, alla quale anche ciascuno degli dei donò le proprie doti e che per questo fu chiamata Pandora. A questa donna misero fra le mani un vaso affinato, nel quale avevano rinchiuso tutti i mali e le pene; in fondo al vaso rimaneva la Speranza. Dapprima ella si recò da Prometeo con il suo vaso, cercando se per caso non volesse prenderlo per aprirlo, cosa che egli, cauto e astuto, rifiutò. Così disprezzata, ella ripiegò su Epimeteo, fratello di Prometeo (ma di temperamento assai diverso). Costui, senza esitazione alcuna e con leggerezza, aprì il vaso; e vedendo tutti quei mali di ogni genere volarne fuori, con tardo senno, con grande sforzo e in tutta fretta tentò di richiudere il vaso con il coperchio, ma potè a stento mantenere la Speranza per ultima in fondo al vaso.
Alla fine Giove, imputando molte e gravi colpe a Prometeo, ossia che una volta aveva rubato il fuoco, che schernito la sua maestà con quel sacrificio ingannatore, che aveva rifiutato un suo dono, aggiungendovi ancha un nuovo delitto, di aver tentato di violentare Pallade, lo fece gettare in catene, condannandolo ad una tortura eterna. Egli infatti, su ordine di Giove, fu condotto sul monte Caucaso, dove fu legato ad una colonna così da non potersi muovere in nessun modo; c’era poi un’aquila che di giorno, con il becco, gli tritava e gli consumava il fegato, mentre di notte quanto gli era stato divorato ricresceva, cosicchè non gli mancava mai occasione per soffrire. Si racconta però che ad un certo momento la tortura ebbe fine: Ercole, infatti, attraversato l’oceano su di una coppa che aveva ricevuto in dono dal Sole, giunse sul Caucaso e dopo aver trafitto l’aquila di frecce, liberò Prometeo.
In onore di Prometeo, presso parecchie popolazioni, furono istituite delle gare di portatori di lampade, nelle quali i concorrenti dovevano correre portando una fiaccola accesa: se si spegneva, dovevano cedere la vittoria agli inseguitori ritirandosi dalla gara; avrebbe ricevuto la palma della vittoria chi per primo fosse riuscito a portare la fiaccola accesa sino al traguardo.
La favola porta nascoste in sé molte riflessioni vere e profonde. Parecchie sono già state giustamente evidenziate, altre sono rimaste completamente ignorate. Prometeo indica in tutta certezza ed evidenza la Provvidenza: nella totalità delle cose, infatti, la sola che gli antichi avevano scelto di attribuire alla provvedenza come opera sua propria, era la generazione e la costituzione dell’uomo. Sembra che di questa attribuzione sia causa non solo il fatto che la natura dell’uomo comprende in sé la mente e l’intelletto in quanto sede della Provvidenza; e dato che sembrerebbe grossolano e incredibile far derivare e trarre la ragione e la mente da principi bruti e irrazionali, si dovrà quasi necessariamente concludere che la provvidenza sia stata introdotta nell’anima umana non senza il modello, l’intenzione e la garanzia della Provvidenza superiore. Ma la favola propone anche e soprattutto questo: che l’uomo è il centro del mondo, almeno per ciò che riguarda le cause finali, al punto che, se fosse eliminato dal mondo, il resto sembrerebbe vagare e fluttuare senza scopo e, cosa che si dice di una scopa sfasciata, non servirebbe a niente. Tutto, infatti, è al servizio dell’uomo, e da ciascuna cosa egli sa ricavare l’utilità e cogliere il frutto: le rivoluzioni periodiche degli astri servono a distinguere le stagioni e a individuare le zone del mondo; le meteore a prevedere le tempeste; i venti ora a navigare, ora a muovere macine e macchine; le piante e gli animali di ogni specie, o a costruire abitazioni e rifugi per l’uomo, o a fornire vesti , vitto o medicine, o ad alleviare fatiche, o, infine, a procurare piacere e conforto, al punto che tutte le cose sembrano fare non il bene proprio, ma quello dell’uomo. Non a caso si aggiunge che in quella massa da cui fu plasmato l'uomo, si trovano mescolate e confuse con il fango particelle tratte da diversi animali; è infatti verissimo che di tutte le cose racchiuse nell'universo l'uomo è la meglio formata e la più complessa, cosicché gli antichi giustamente lo chiamarono il Mondo Minore. Per quanto infatti gli alchimisti abbiano inteso troppo alla lettera l'eleganza della parola Microcosmo, travisandola in modo troppo grossolano quando vogliono rintracciare nell'uomo tutti i minerali, tutti i vegetali e tutto il resto, o qualche sostanza ad essi corrispondente, ciò che abbiamo detto rimane tuttavia una certezza solida e ragionevole: di tutti gli esseri il corpo umano è il più composito e il più organico, per cui è suscettibile, e vi si trovano, delle virtù e delle facoltà più ammirevoli. Le potenze dei corpi semplici, infatti, benché sicure e rapide, sono poche, essendo poco resistenti alla mescolanza, da essa neutralizzate e per niente in equilibrio; mentre l'abbondanza e l'eccellenza della potenza sta nella mescolanza e nella composizione dei corpi.
Cionondimeno, alle origini, l'uomo sembra inerme, nudo e lento nel difendersi, insomma bisognoso di tutto. Per questo Prometeo si affrettò a scoprire il fuoco, che provvede a quasi tutte le necessità e agli usi degli uomini, fornendo sollievo e aiuto, cosicché, se l'anima viene definita forma delle forme, la mano strumento degli strumenti, il fuoco merita di essere definito aiuto degli aiuti o forza delle forze. Da esso infatti derivano moltissime operazioni, e le arti meccaniche e le stesse scienze se ne servono in infiniti modi. La modalità del furto del fuoco poi è descritta in maniera adeguata e conforme alla natura della cosa. Si dice che avvenne avvicinando un ramoscello di ferula al carro del Sole. La ferula infatti viene usata per percuotere e colpire, per cui indica chiaramente che la generazione del fuoco avviene attraverso la percussione violenta e lo sfregamento dei corpi che, attenuando la compattezza della materia, la mettono in movimento e la preparano a ricevere il calore dei corpi celesti e ad attingere al fuoco di nascosto e quasi furtivamente, come se lo rubasse al carro del Sole.
A ciò segue una parte notevole della parabola. Gli uomini, invece di dimostrazioni di gioia e azioni di ringraziamento, si indignarono, si lamentarono e deferirono Prometeo [672] e il fuoco a Giove; il che fu così ben accetto a Giove che fece ricadere sugli uomini nuova generosità. Perché questa approvazione e questa ricompensa per un'ingrata calunnia contro il benefattore (per un vizio che quasi comprende tutti gli altri)? Sembra che ciò alluda a qualche altro significato. Questo, infatti, è il senso dell'allegoria: l'accusa che gli uomini rivolgono sia alla loro natura sia all'arte nasce da un'ottima intenzione e mira al bene, mentre la disposizione contraria è invisa agli dei e funesta. Coloro infatti che esaltano smisuratamente la natura umana o le arti apprese, prodigandosi in ammirazione verso quelle scoperte che già possiedono, e vogliono che si giudichino assolutamente perfette le scienze che professano o coltivano, sono i primi a mancare di rispetto verso la natura divina, alla cui perfezione quasi equiparano le proprie scoperte. Essi, inoltre, sono ancora più inutili per gli uomini, perché credono di esser già giunti al massimo della perfezione e, come soddisfatti, rinunciano a cercare ancora. Al contrario, coloro che denigrano e accusano la natura e le arti lamentandosi di continuo, non solo hanno un animo più modesto, ma sono anche continuamente stimolati a nuove attività e a nuove scoperte. Perciò mi sembrano strani l'ignoranza e il cattivo genio degli uomini che, schiavi dell'arroganza di pochi, tengono in tanta venerazione la filosofia dei Peripatetici (che è soltanto una parte della sapienza greca, e neppure la più grande) da considerare ogni accusa ad essa rivolta non solo inutile, ma anche sospetta e quasi pericolosa. Più della scuola di Aristotele, sicura di sé e dogmatica, sono da approvare Empedocle e Democrito, i quali, l'uno quasi delirando, l'altro con maggior discrezione, lamentano che tutto è oscuro, che non possiamo conoscere né distinguere nulla, essendo la verità immersa in pozzi profondi e il falso congiunto e intrecciato con il vero (e la Nuova Accademia ha portato tutto ciò alle estreme conseguenze). Bisogna dunque ammonire gli uomini che ogni accusa contro la natura e le arti è gradita agli dei e consente di ottenere nuove elargizioni e nuovi doni dalla benevolenza divina, e che ogni accusa mossa a Prometeo, nostro creatore e maestro, per quanto penetrante e violenta, si rivela più saggia e più utile di ogni dimostrazione di gioia; e infine che l'illusione della ricchezza è da annoverare fra le principali cause della povertà.
Quanto al genere di dono che, si narra, gli uomini ricevettero come premio della loro accusa (cioè il fiore non caduco della giovinezza), esso è tale da farci sembrare che gli antichi non disperassero di scoprire modi e medicine per ritardare la vecchiaia e prolungare la vita, ma che considerassero questo beneficio fra quelli che, una volta ricevuti, [673] furono destinati a scomparire e a dissolversi per l'inettitudine e l'incuria degli uomini, piuttosto che fra quelli che erano stati sempre negati e mai concessi. Gli antichi, infatti, intendono dire e ci indicano che per il corretto uso del fuoco e per la denuncia e condanna degli errori delle arti non era venuta meno la generosità divina verso gli uomini perché ottenessero questi doni; ma furono essi stessi a privarsene quando caricarono questo dono degli dei sul dorso di un asinello tardo e lento. Questo sembra rappresentare l'esperienza, una cosa stupida e piena di lentezza, dal cui passo tardo da tartaruga deriva quell'antico lamento: La vita è breve, l'arte lunga. Noi siamo certo dell'opinione che quelle due facoltà, la dogmatica e l'empirica, non siano state ancora ben congiunte e legate insieme, ma che la funzione di portare i nuovi doni degli dei sia stata affidata o alle filosofie astratte, come ad un uccello leggero, o all'esperienza tarda e lenta, come. ad un asinello. Di quell'asinello, tuttavia, va detto che saprebbe comportarsi bene, purché lungo la via non intervenga quell'incidente della sete. Riteniamo infatti che, se uno si sottomette con costanza alle indicazioni dell'esperienza, secondo una legge certa e con metodo, senza farsi cogliere lungo la via dalla sete di esperimenti che servono o al guadagno o all'ostentazione, così da deporre e disperdere il suo carico per ottenerli, costui non sarebbe un inutile portatore dell'accresciuta e nuova generosità degli dei.
Il fatto poi che quel dono sia passato ai serpenti, sembra un'aggiunta alla favola, quasi una decorazione, a meno che, forse, non significhi che gli uomini hanno vergogna di non poter ottenere per sé, con il loro fuoco e tutte le altre arti, ciò che la natura elargisce da sé a molti altri animali. Anche quella improvvisa riconciliazione degli uomini con Prometeo dopo la caduta di ogni loro speranza, contiene un monito utile e saggio: mette infatti in evidenza la leggerezza e la temerità degli uomini nell'avventurarsi in nuovi esperimenti. Se infatti questi non hanno subito successo e non rispondono alle attese, gli uomini abbandonano frettolosamente ciò che hanno iniziato, per ricorrere precipitosamente alle idee antiche, riconciliandosi con esse.
Dopo aver descritto la condizione dell'uomo in relazione alle arti e all'ambito intellettuale, la parabola passa alla religione: la cultura delle arti, infatti, si accompagnò al culto degli dei, che fu subito occupato e profanato dall'ipocrisia. Sotto quel duplice sacrificio sono elegantemente rappresentate la figura dell'uomo veramente religioso e quella dell'ipocrita. Nel primo, infatti, si trova il grasso, senza dubbio parte di Dio, per la facilità ad infiammarsi e il profumo che emana, che significano l'affetto e lo zelo che ardono verso la gloria di Dio e tendono verso mete elevate; dentro vi sono viscere di carità e carni buone e utili. Nell'altro, invece, non si trovano che ossa nude e rinsecchite, che tuttavia imbottiscono la pelle, [674] facendole assumere l'aspetto di una vittima bellissima e magnifica. Tutto ciò indica con efficacia i riti esteriori e vuoti e le sterili cerimonie di cui gli uomini caricano e gonfiano il culto divino: sono cose disposte all'ostentazione più che alla pietà. Né gli uomini si limitano ad offrire a Dio simili scherni, ma glieli attribuiscono e glieli imputano, come se fosse stato lui stesso a sceglierli e a prescriverli. Certo, il profeta, per bocca di Dio, lamenta questa scelta: È forse questo il digiuno che HO PRESCRITTO perché l'uomo umilii il suo animo per un solo giorno, e abbassi il capo come un giunco?
Dopo la situazione della religione, la parabola si volge a considerare i costumi e le condizioni della vita umana. È molto diffusa, ed anche molto giusta, l'idea che con Pandora si voglia alludere alla voluttà e alla libidine, che, dopo l'avvento delle arti, della cultura e del lusso nella vita civile, si è infiammata anch'essa come per dono del fuoco. Per questo, a Vulcano, che analogamente rappresenta il fuoco, viene attribuita la creazione della voluttà. Da essa scaturirono infiniti mali per l'animo, per il corpo e per il destino degli uomini, insieme con il tardivo pentimento, e non solo per la condizione dei singoli, ma anche per i regni e le repubbliche. Dalla medesima fonte, infatti, ebbero origine le guerre, i tumulti e le tirannidi.
Vale poi veramente la pena di osservare con quale bellezza ed eleganza la favola rappresenti la duplice condizione della vita umana nelle figure, o esempi, di Prometeo e di Epimeteo. I seguaci di Epimeteo, infatti, sono incauti e non riflettono sul futuro, apprezzando innanzitutto ciò che loro piace al presente, e per questo sono assediati da molte angosce, difficoltà e disgrazie, contro cui combattono quasi di continuo. Nel frattempo, tuttavia, placano le proprie inclinazioni e, per la loro ignoranza delle cose, nutrono nell'animo molte vane speranze, nelle quali si dilettano come in dolci sogni, alleviando le miserie della propria vita. I seguaci di Prometeo, invece, uomini assolutamente saggi e capaci di guardare al futuro, sanno cautamente tenere lontani e respingere mali e sventure; ma con questa loro capacità è congiunto lo svantaggio di doversi privare di molti piaceri e delle diverse gioie della vita, defraudando la loro inclinazione più propria, e, quel che è peggio, si tormentano e si logorano in preoccupazioni, inquietudini e timori interiori. Infatti, legati alla colonna della Necessità, sono consumati da innumerevoli pensieri (per la loro volubilità rappresentati dall'aquila), che li pungono mordendone e corrodendone il fegato; forse solo a volte, ad esempio di notte, riescono ad avere qualche breve momento di sollievo e di tranquillità, per ritornare, tuttavia, subito dopo, [675] a nuove ansie e timori. A pochissimi, perciò, è toccato il beneficio di entrambe le sorti, di conservare i vantaggi della previdenza e di liberarsi dai mali delle preoccupazioni e dei turbamenti. Nessuno può ottenere questa condizione se non grazie ad Ercole, cioè alla fortezza e alla costanza d'animo, che, preparando ad affrontare ogni evenienza e ogni destino, consente di guardare avanti senza timore, di godere senza annoiarsi e di sopportare senza impazienza. E degno di nota è che in Prometeo questa virtù non era innata, ma acquisita per opera altrui. Nessuna fortezza, infatti, che non sia congenita e naturale, può essere pari ad essa; ma questa virtù giunse dalle regioni al di là dell'oceano, portata dal Sole: essa, infatti, viene dalla sapienza, che è come il Sole, e dalla riflessione sull'incostanza, cioè sulle correnti della vita umana, che è come un navigare sull'oceano. Virgilio ha ben collegato insieme questi due aspetti:
Felice chi poté conoscere le cause delle cose
e mettere sotto i piedi ogni paura
e il fato inesorabile e lo strepito dell'avido Acheronte.
In modo molto elegante si aggiunge, per consolare e rincuorare l'animo umano, che questo grande eroe navigò in una coppa o in una brocca, affinché gli uomini non temano troppo o non adducano come pretesto le angosce e la fragilità della propria natura, come se non fossero affatto capaci di una fortezza e di una costanza di questo genere. Proprio questo, Seneca bene presagì, quando disse: Grande cosa è avere insieme la fragilità dell’uomo e la fortezza di Dio.
Ma dobbiamo ora ritornare a quel particolare che di proposito abbiamo trascurato per non interrompere la connessione dei fatti, cioè a quell'ultimo delitto di Prometeo, di aver attentato alla castità di Minerva. Anche per questo delitto, infatti, certamente gravissimo e grandissimo, egli subì la pena del laceramento delle viscere. Esso non sembra significare altro che gli uomini, gonfi delle arti e dell'ampiezza delle loro conoscenze, tentano spesso di sottomettere ai sensi e alla ragione anche la sapienza divina; ne seguono certamente una lacerazione e una stimolazione continua e inquieta della mente. È quindi necessario distinguere con senno ed umiltà le cose umane da quelle divine, gli oracoli del senso e della fede, perché non capiti che gli uomini abbiano a cuore una religione eretica e una filosofia immaginaria.
Resta per ultimo il racconto delle corse con le fiaccole ardenti, organizzate in onore di Prometeo. Esso riguarda ancora le arti e le scienze, come quel fuoco a memoria e celebrazione del quale questi giochi furono istituiti, e contiene un ammonimento molto saggio: che la perfezione delle scienze si deve attendere non dall'acutezza e dal talento di uno solo, ma dalla successione. E infatti coloro che nella corsa e [676] nella gara sono i più veloci e i più capaci, sono forse i meno abili a mantenere accesa la propria fiaccola, dato che il pericolo che si spenga minaccia sia la corsa troppo rapida sia quella troppo lenta. Sembra che queste gare di corsa con le fiaccole siano state interrotte già da tempo, in quanto le scienze si vedono fiorire soprattutto nei loro primi maestri, Aristotele, Galeno, Euclide, Tolomeo, mentre i successori non hanno fatto nulla di grande e neppure l'hanno tentato. Sarebbe quindi da sperare che questi giochi in onore di Prometeo, cioè della natura umana, vengano ripristinati e che la vittoria dipenda dalla competizione, dall'emulazione e dalla buona sorte, e non dalla fiaccola tremula e agitata di uno solo. Gli uomini siano dunque ammoniti a farsi animo e a sperimentare le proprie forze e anche il proprio avvicendarsi, per non affidare tutto alle animucce e ai cervelletti di pochi.
Questo è ciò che ci sembra adombrato in questa favola così diffusa e celebrata; e tuttavia non neghiamo che vi siano non pochi spunti che con mirabile concordanza alludono ai misteri della fede cristiana: innanzitutto, la navigazione di Ercole sulla brocca per liberare Prometeo sembra rappresentare il Verbo di Dio che viene nel fragile vascello della carne a redimere il genere umano. Ma su questo argomento ci tratteniamo da ogni discorso, perché non capiti che portiamo all'altare del Signore un fuoco a Lui estraneo.