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I sec. d.C.

IGINO, De astronomia, 2, 15

Testo tratto da: Igino, Fabulario delle stelle, a cura di Piermattei D., Sellerio, Palermo 1996

La freccia

Sarebbe, dicono, uno dei dardi di Ercole con cui egli uccise quell’quila che divorava il fegato di Prometeo. Su questo ci pare utile aggiungere qualcos’altro. Gli antichi avevano come usanza quella di sacrificare agli dei immortali, con la massima solennità, nel fuoco rituale le vittime tutte intere. Poiché ai poveri non era possibile offrire sacrifici, a causa delle spese troppo onerose, Prometeo, quello di cui si dice che, grazie alla superiorità del suo ingegno, avrebbe formato gli uomini, con una sua istanza ottenne da Giove che una parte della vittima venisse gettata sul fuoco, mentre l’altra fosse consumata da loro per nutrirsi. In seguito l’abitudine consolidò questa pratica. Siccome aveva ottenuto di buon grado questa concessione da un dio e non da un uomo interessato, Prometeo stesso gli sacrificò due tori. Cominciò appoggiando sull’altare i fegati degli animali, poi riunì tutto il resto della loro carne e l’avvolse con una delle pelli. Con tutte le ossa riempì invece l’altra e la mise in evidenza; lasciò poi a Giove la facoltà di scegliere quale parte desiderasse. Giove non diede prova di intelligenza divina, né della sua capacità di poter tutto prevedere, come è concesso a un dio, ma (dato che abbiamo deciso di dar credito alle leggende) ingannato da Prometeo e credendo che ciascuna delle due parti contenesse la carne del toro, scelse, quale metà di sua spettanza, quella piena di ossa. Così poi durante i sacrifici solenni e rituali si mangia la carne delle vittime e si brucia tutto il resto, come parte destinata agli dèi, sullo stesso fuoco. Per tornare in argomento, Giove, scoperta la verità si adirò e tolse ai mortali il fuoco, perché la benevolenza di Prometeo nei loro confronti non  apparisse superiore alla potenza degli dèi e per far sì che, non potendola più cuocere, l’uso della carne risultasse inutile. Così Prometeo abituato a tendere inganni, pensò di restituire ai mortali il fuoco soprattutto per le sue premure. Infatti, allontanati tutti gli altri, si avvicinò al fuoco di Giove e, dopo averlo un po’ indebolito, lo ripose dentro una canna; felice, al punto di sembra volare più che correre, agitava la canna affinchè il fumo, costretto in quello stretto tubo, non soffocasse la fiamma. Così anche gli uomini, il più delle volte, quando sono messaggeri di notizie liete, arrivano di gran fretta. Inoltre, sull’esempio di Prometeo, si stabilì che, nella disputa dei giochi, i corridori corressero agitando una fiaccola. In conseguenza di ciò, Giove si affrettò a restituire la pariglia ai mortali, per cui inviò loro una donna fabbricata da Vulcano, che la benevolenza degli dèi rese colma di ogni pregio; perciò ebbe nome Pandora. Quanto a Prometeo lo legò con una catena di ferro su un monte della Scizia chiamato Caucaso al quale, secondo il tragediografo Eschilo, rimase incatenato per trentamila anni; per di più mandò contro di lui un’aquila a divorargli senza sosta il fegato che ogni notte però ricresceva. Alcuni ritengono che quell’aquila fosse nata da Tifone ed Echidna, altri invece dalla Terra e dal Tartaro; i più sono concordi nel dire che sia stata forgiata dalle mani di Vulcano e che Giove le infuse la vita. Riguardo alla sua liberazione ce ne viene tramandato il motivo: allorchè Giove, attratto dalla sua bellezza, chiese in sposa Teti, la timida fanciulla lo respinse. Ma non per questo egli ritenne di tirarsi indietro. In quel tempo, dicono, le Parche, cantando, predicevano il destino che si compiva secondo il volere della natura. Annunciavano infatti che chiunque avesse sposato Teti avrebbe avuto un figlio destinato a diventare più insigne del padre. Prometeo, cui la necessità e non la sua volontà costringeva a restare sempre sveglio, ascoltò la profezia e la riferì a Giove. Questi, temendo che ciò che egli stesso aveva fatto, in circostanze simili, al proprio padre Saturno, lo costringesse poi ad abbandonare il trono paterno, rinunciò alla sua intenzione di sposare Teti e, per dimostrare la sua gratitudine a Prometeo per il favore ricevuto, lo liberò dalle catene. Per non venir meno al suo giuramento però, non lo lasciò completamente libero in quanto lo obbligò a portare, per l’avvenire e a mò di esempio, una catena al dito fatta di due materiali, vale a dire ferro e pietra; gli uomini, allo scopo di sdebitarsi con Prometeo, hanno adottato questa usanza e portano anelli foggiati in ferro e pietra. Secondo alcuni egli ebbe anche una corona per annunciare, al tempo stesso, la sua vittoria e l’impunità della propria colpa. Pertanto gli uomini, quando sono particolarmente felici o in caso di vittoria, hanno stabilito di portare delle corone; così come si potrà notare anche nelle gare o nei banchetti. Ma ritengo opportuno di dover ritornare all’inizio della mia indagine e alla morte dell’aquila. Ercole fu mandato da Euristeo alla ricerca dei frutti delle Esperidi, ma non conoscendo la strada giunse presso Prometeo che, come è stato detto, si trovava incatenato sul monte Caucaso. Da lui ricevette l’indicazione della via. Uscito vincitore dal confronto volle ripassare da lui per annunciargli la morte del drago, l’abbiamo già altrove raccontato, e per ringraziarlo del favore. Volle così sdebitarsi come meglio gli era possibile [uccidendo l’aquila che lo straziava]. Scongiurato questo flagello, gli uomini decisero di bruciare, sugli altari degli dèi, i fegati delle vittime sacrificate, così da sembrare di  ripagarli dei visceri di Prometeo. Eratostene invece sostiene, a proposito della Freccia, che con essa Apollo uccise i Ciclopi, creatori della folgore con la quale, a parere di molti, Giove colpì a morte Esculapio. Questa freccia  fu poi sotterrata da Apollo sul monte Iperboreo. Giove perdonò suo figlio e gli fece giungere, spinta dal vento, la medesima freccia con tutti i frutti maturati in quella stagione. E’ questo dunque il motivo per cui ora la si ammira tra le stelle.