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I sec. d.C.

VALERIO FLACCO, Le Argonautiche, IV, 58- 81; V, 154-176; VII; 355-370

Testo tratto da: Valerio Flacco, Le Argonautiche, a cura di Caviglia F., Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1999

IV, 58- 81

Si era messo in cammino verso i Troiani,

la loro città che l’aveva ospitato (si ricordava

ciò che gli aveva promesso il tiranno di Troia),

quando al cospetto di Giove, si fermarono insieme,

tristi, Latona e Diana; Apollo così lo pregò:

“A quale altro Ercole, a quale altro momento

o grande re, tu destini quel vecchio del Caucaso?

Non li farai più finire, la sofferenza e il castigo?

Tutto il genere umano, padre supremo, ti invoca;

ti invocano, stanchi, persino montagne, foreste e giogaie.

Non hai già punito abbastanza il furto del fuoco

e tutelato il segreto sui conviti d’Olimpo?”.

Quando ebbe detto così, lo stesso Prometeo,

dalla sua rupe, mentre lo divorava l’atroce

avvoltoio, assillava con pianti, con grida di pena

Giove, levando gli occhi riarsi di brina crudele.

Le rupi ed i fiumi del Caucaso danno più forza a quell’urlo.

Anche l’avvoltoio di Giove è attonito per il fragore.

Perfino dall’Acheronte si udì, nelle rocche d’Olimpo,

Giàpeto; egli invocava, ma l’Erinni severa

lo tratteneva laggiù, per rispetto al volere supremo di Giove.

Questi, turbato dal pianto delle due dee,

dal grande prestigio di Apollo, manda giù dalle nubi rosate

la veloce Iride: “Vai! Che Alcide rimandi

i Frigi, rimandi la guerra ai Troiani.

Adesso strappi il Titano dal crudele avvoltoio”.

Scende, allora, la dea, e riferisce all’eroe

l’impero del padre che non tollera indugi.

Lietamente esortandolo, gli mette slancio nel cuore.

 

V, 154-176

Al di là, si distingue l’ultimo golfo

e l’atroce giaciglio cui è sospeso Prometeo:

è il Caucaso, elevato sino al gelo dell’Orsa,

fino a toccare le gelide stelle del Nord.

Nello stesso giorno, per caso, vi era arrivato anche Ercole

che stava mutando la sorte del Titano. Aveva afferrate

con le mani le aspre catene, cercando di svellerle a forza

(ghiacci antichissimi precipitavano ovunque);

già le aveva strappate dalle basi dei sassi.

Si levava con tutta l’altezza, sforzando sul piede sinistro.

Rimbomba il grande Caucaso, mentre le piante

seguendo la cima della montagna spezzata,

piombano giù, sbarrando ai fiumi la strada del mare.

C’è un fragore, come se Giove, l’altissimo, avesse sospinto

le rocche del cielo o la mano di Nettuno avesse colpito

gli abissi profondi della terra; ne freme

l’immensa costiera del Ponto, ne freme

l’Iberia, il cui confine rasenta l’Armenia.

Per lo sconquasso profondo del mare tremano i Minii:

ritornano forse le rupi vaganti, lasciate alle spalle?

Si ascolta più da vicino stridere il ferro

e la massiccia fatica della montagna

per le rocce divelte, e l’urlo pesante

del Titano mentre il suo corpo, confitto, è staccato dal monte.

Ma i compagni, inconsapevoli (infatti, chi crederebbe

che sopra quelle montagne ci sia Ercole, adesso?

Chi ritenterebbe speranze abbandonate?),

affrettano il viaggio; soltanto, dal largo,

stupiscono di vedere il litorale coperto

dalla neve scossa dal monte, macigni spezzati,

ed anche quell’ombra immensa, dall’alto,

di un morente rapace che irrorava di sangue lo spazio.

 

VII; 355- 370

 [Medea] Si fascia il seno ed estrae (in nessuna potenza di incanti

ella fidava di più) quel fiore del Caucaso nato

dal sangue di Prometeo, fiore nutrito dal monte

fra le nevi, le squallide brine,

rafforzato ed alimentato dal sangue del dio,

quando il rapace si innalza sopra le rocce

e col becco aperto lo irrora, una volta sbranati quei visceri.

Quel fiore mai non si piega, all’estremo di un vivere lungo:

con vigore immortale, si aderge contro le folgori

incolume, ed i suoi steli fioriscono in mezzo alle fiamme.

Ecate fu la prima  a portare una falce

temprata nelle sorgenti dello Stige e strappò

via dalle rupi gli steli robusti;

poi mostrò il raccolto all’ancella, che ogni decimo mese

miete il monte che è fecondato, spargendo strazio su tutte

le imputridite reliquie del dio.

Invano egli geme, guardando nel volto la donna di Colchide;

uno spasimo, sulla montagna, gli fa contrarre le membra,

e le catene vibrano tutte per quei colpi di falce.