Licfr03

1555

Ludovico Dolce, Le Trasformazioni.Gabriele Giolito, Venezia, 1555

 

Canto Primo (F. A v recto)

 

Grande sdegno e pietade entrò nel core

De'santi spirti al suon di quelli accenti;

E dimostrar con le parole fuore,

Quanto dentro di cio fosser dolenti.

Poi che Giove con man quetò il romore;

E stetter tutti ad ascoltarlo intenti,

De la giust'ira tuttavolta ardendo,

Da capo incominciò, cosi dicendo.

 

Soverchia è l'ira in voi, la pietà honesta:

Che ben ho punt'io l'iniquo hostiero:

E, per venire a quel, che dir mi resta,

Vi conterò, com'è passato il vero.

Discendo in terra; e prendo humana vesta;

E cerco hor qua, hor là vario sentiero:

Ne vi potrei narrar, quanti peccati

Veggo, dov'io mi volga, in tutti i lati.

 

Vidi, ch'a l'avaritia ogn'un si dava

In preda si, che d'homicidi piena

Ogni terra, ogni parte si mostrava

Tal, ch'era luogo, ove fermarmi a pena.

E, mentre di trovar desiderava

L'infamia falsa, e sollevar la pena;

L'infamia, ch'a l'orecchie mie venuta

Era gia tal, ch'io non l'havrei creduta;

 

Allhor (chi 'l crederebbe?) hebbi trovato

Tra poco il vero assai maggior del grido.

Menalo intanto havea tutto varcato,

Di strane fere spaventoso nido,

Poi con Cilene di Liceo gelato

Glialti pigneti: e per camino infido

Quindi visito Arcadia; e son raccolto

Da Licaon benignamente in volto.

 

Licaone, il tiran di quel paese,

Ne l'homicida albergo mi raccolse

In apparenza human tutto e cortese:

Ma nel suo cor fiero consiglio volse.

Hor, se Giove è costui, mi fia palese,

Dicea; e far la esperienza volse:

Che nel giunger hebb'io le voci sparte,

Ch'era dio, che veniva in quella parte.

 

Gia cominciavan con honesti voti

Gli huomini a darmi incensi et adorarmi;

E quinci e quindi supplici e divoti

Ne le bisogne loro ad invocarmi.

Ei, ch'i pensieri ha da pietà rimoti,

E tutti volti e intenti ad ingannarmi,

Va disegnando pur nel corpo mio

Di provar, s'era ver, ch'io fossi dio.

 

F. A v verso

 

A tale ufficio un picciol garzone

Crudele ancide; e via piu crudelmente

Le membra ancor tremanti a cuocer pone:

Parte ne l'acqua fervida e bollente:

Parte ne fece arroste in un schidone,

Pensando l'empia e scelerata mente

Tormi la vita; quando il negro dio

Dispensa l'acqua del suo dolce oblio.

 

Gia Febo in altra parte il carro mena,

E la luce in quel clima era sparita.

L'hostier con fronte alhor grata e serena

La mensa appresta; et i famigli aita:

E, poi ch'apparecchiata fu la cena,

Con le acconcie parole a lei m'invita.

Ma prima, ch'ella alcun principio havesse,

Col proprio di lui danno il fin successe:

 

Ch'a l'apparir de le vivande humane

Di ch'egli fu lo scalco, et egli il cuoco,

Senza cibo mangiar, ne gustar pane,

La casa accesi d'invincibil foco.

Quell'empio dentro lei gia non rimane

Ma fugge a piu poter l'ardente loco.

Fugge a le selve: e mentre affretta il piede

Tutta cangiar l'humana forma vede:

 

Il drappo in velli, e in piedi ambe le braccia;

Ond'ira e tema il cor gli assale e rode.

Vorria lagnarsi; e fuor del petto caccia

Urlando grido, che lontano s'ode:

Divenne lupo, che divora e straccia

Pecore e armenti; e ancor di sangue gode.

Ha gliocchi ardenti, ha quella imagin ria,

E rabbia il cuor, ch'haver soleva pria.

 

Alhor quella medesma crudeltate,

Che ne gli huomini usava, usa nel gregge.

Stassi ne boschi, e per solinghe strade

Di furti, com'ei puo, la sua vita regge.

Ma che piu ragionar di questo accade

Di natura nimico e d'ogni legge ?

Un ve n'ho spento: ma in si largo stuolo

Degno non è, che se ne spenga un solo.