1553
LODOVICO DOLCE, Le Trasformazioni, in Venetia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari e fratelli, Libro II
(…) Giunone al fin la sua rivale ottenne.
Ma non però fu di sospetto fuore
Ne da Giove secura ella si tenne
O n’hebbe queto e ripostato il core,
Infin, che ne la mente non le venne
Un fedel guardiano, Argo pastore;
Che cinto il capo da cent’occhi havea,
Ne di lor più, che due, chiuder solea.
Come le guardie intorno a meri fanno di
Cittade o castel l’usata ascolta;
Che l’ufficio tra lor partendo vanno,
Et a questo et a quel danno la volta:
Così agli occhi a vicenda aperti stanno
D’argo ; a serrare due tocca per volta.
Ad Argo adunque, che cotanto vede,
Giuno a serbar l’afflitta vacca diede
Quella infelice a l’occhiuto pastore
Bench’ei riguardi altrove, e sempre inanti:
Ne spera, che gaimai per girar d’hore
Possa celarsi un giorno ad occhi tanti.
Lasciala il di per le campagne fuore
Quel pascolar, pur che gli stia davanti:
La notte poi con dura fune offende
L’indegno collo, e al chiuso ovil la rende.
D’herbe e foglie si pasce,et aspro letto
Le da la terra polverosa e dura;
e quando sete le molesta il petto,
Ber le conviene acqua fangosa e scura,
Quante fiate con dolente aspetto
Per impetrar mercé di sua sventura;
Volea levar Argo ambe le mani.
S’ovide poi, che non ha membri umani
(…)
Così dicea quel misero; e piangea;
Quand’Argo, che non sa quel ch’è pietade;
La giovenca dal padre rimoveva
E cerca al pascolar altre contrade
Ascendeun monte onde veder potea
E le segnate e le destre strade.
Ma tanta crudeltà, ch’el ciel percote,
Ver lei più soffrir Giove non pote.
Mercurio chiama; e al giovinetto impone
Che l’ingiusto pastor spenga et occida
Egli l’alate scarpe in piè si pone
E prende in man la verghetta fida:
Con cui de’ sommi, come vuol, dispone;
Et hor gl’induce al mondo, hora gli snida.
Ponsi il cappello: e in men, che non balena,
E’ ne la terra, e’ l lieve corpo affiena.
Qui nascondendo ogn’ altra cosa solo
Ritien la verga: e a guisa il pastore
Caccia di pecorelle un bianco stuolo,
Che va spogliando a prati il ricco honore.
E, come sfoghi d’ amoroso duolo
E’ dolce acqueti e racconsoli il core,
Sonando una zampogna le profonde
Valli ne ingombra:intanto Eco risponde.
Argo del suon non più sentito mai
Stupito resta, e vago ogni altra misura.
E dice, pastorel meco potrai
Qui riposar su questa pietra dura:
Che se pel gregge tuo cercando vai
Herba; più bel terren non fe Natura.
Ne difender ci pon dà solar raggi
Più dritti Pini, o più forzuti Faggi.
Il sagace corrier lo ‘nvito tenne;
E con parole d’artificio armate
Del giorno a consumar gran parte venne
Fra motti arguti, e novellette grate..
E poi, ch’i motti e ‘l novellar ritenne
Tornò da capo a le sue canne usate,
Empiendo il ciel di si nuovi concerti,
Ch’intorno ad ascoltar fernarsii venti.
Fra tanto il sonno a poco a poco tenta
Di vincer Argo: et ei pur non vorrai
Chiuder le ciglia: e parte s’addormenta
Già stanco; e parte vegghia tuttavia.
Indi bramoso di saper diventa
Onde quel nuovo suon trovato fia
Mercurio, che desideria adempire
L’intento suo, così comincia a dire (…)
(…) Questo Mercurio raccontato havria
Ma s’avvide, ch’intanto Argo dormia.
Onde senza tardar chiuse la bocca:
e perché l sonno suo fosse più forte,
Con l’incanatat verga gli ochhi tocca
De l’ncauto, ch’è homai vicino a morte.
E mentre, il capo hor quà hor là trabocca,
Trasse la spada il giovinetto forte;
Indi gira le mani spedita e presta
Là, dove il collo termina a la testa.
La testa se n’andò tosto lontana
Dal morto busto a insanguinar la terra
Così fu del pastor la cura vana;
E quei cent’occhi una sol notte serra.
Giunon per ciò non divenne humana;
Anzi apparecchia ad Io più cruda guerra
MA pria che l’ira e lo sdegno scocchi,
Trasse di testa al suo custode gli occhi.
E con questi dè suoi vezzosi Augelli ,
Quasi stellanti gemme. Ornò la coda:
Onde i Pavoni son pomposi e belli,
E par che ogn’un di tal bellezza goda.
Poi, che divise in cotal forma quelli,
Perché nuovo martir mai sempre roda
L’odiata vacca; uno stimolo le diede
Ch’ovunque vada, la percuote e “fiede”.