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GIOVANNI BOCCACCIO, Genealogie Deorum Gentilium, VII, cap. XXI-XXII

Testo tratto da: Tutte le Opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Branca V., Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1988

XXI. Il fiume Inaco, dodicesimo figlio di Oceano, che generò Io, Foraneo e Fegoo

Inaco è un gran fiume dell’Acaia, che bagna, come dice Pomponio, i campi argolici. Questo, come gli altri, è detto figlio di Oceano e della Terra. Per esso gli antichi vogliono si intenda dire di Inaco, re di Sicione, dal quale prese nome. E questi, come afferma Eusebio, regnò mentre in Assiria regnava Baleo, o Serse, attorno all’anno del mondo 3347, tempo nel quale nacque Giacobbe.

XXII. Io, figlia di Inaco e madre di Epafo

Io, come dice Ovidio, fu figlia di Inaco; e su di lei egli racconta questa favola. Bellissima vergine, fu amata da Giove, il quale, mentre ella tornava dalle acque del padre e stava per fuggire, la raggiunse e nonostante quello lo pregasse, la coprì di tenebre e la stuprò. Giunone vide dall’alto le tenebre; messa in sospetto, discese in terra e le dissipò. Vedendo ciò Giove, affinché non apparisse il suo peccato, trasformò la fanciulla in vacca e la donò, suo malgrado, a Giunone, che la decantava e la chiedeva. Giunone subito la consegnò da custodire ad Argo, figlio di Aristide, dai cento occhi, dei quali solo due per volta si chiudevano a dormire. Giove ebbe compassione della fanciulla e le mandò Mercurio per liberarla dalla guardia di Argo. Il dio prese l’aspetto di un pastore e si avvicinò ad Argo; e mentre gli insegnava a suonare la zampogna, lo toccò con il caduceo e strinse tutti i suoi occhi insieme in profondissimo sonno e, mentre dormiva, lo uccise con la spada. Lo vide Giunone e, prendendo gli occhi d’Argo, li collocò nella coda del pavone, suo uccello, e nella vacca inserì un assillo, infestata dal quale, Io prese una corsa precipitosa, attraversò molti luoghi e non si fermò prima di giungere in Egitto, dove riposò; e, per le preghiere di Giove, fu restituita da Giunone al suo aspetto primitivo; e -come  molti vogliono- generò a Giove Epafo e sposò il nipote Api e, dal suo nome di Io, fu chiamata Iside, dagli Egiziani.

Io credo che doppio sia il significato di questa favola: naturale e storico. Il naturale credo sia che, secondo l’opinione di Macrobio, Giove deve essere inteso come il sole, il quale amò una figlia del fiume Inaco, cioè l’umidità vitale del seme umano, per fare avvenire in essa ciò che dice Aristotele: “L’uomo e il sole generano l’uomo”; e allora circonda di tenebre l’umidità, cioè, secondo la favola, la figlia di Inaco, quando l’utero della madre s’accresce e conserva il feto per essa concepito; ma quelle tenebre dissipa Giunone, cioè la luna (alla quale spetta ampliare i canali dei corpi), quando, invocata secondo l’uso antico, per essere ritenuta la dea delle partorienti, quel feto già maturo porta alla luce, cioè quello che il sole aveva prima trasformato in vacca: facendo un animale dell’umore rappreso del seme umano. E perciò l’uomo si dice trasformato in vacca perchè, come la vacca è produttivo e laborioso animale, così anche l’uomo. Il quale, come l’uccello al volo, nasce appunto alla fatica del lavoro; e Dio ben sa quanto sia fruttuoso il lavoro umano. Per questo il figlio è affidato per la custodia ad Argo, cioè alla ragione, che ha sempre molti lumi che vigilano anche per la nostra salute. Invero Mercurio (cioè l’astuzia della carne, che blandisce), con il caduceo, cioè con pessimi consigli, porta la ragione al sonno e la uccide; e, dopo averla vinta e rigettata, Giunone, cioè la concupiscenza dei regni, del potere e della ricchezza, insinua nella vacca, cioè nell’umano appetito, l’assillo, ossia lo stimolo della sollecitudine ad acquistare; di qui, miseri, precipitiamo nella corsa, vaghiamo e ci aggiriamo pieni di incertezze, cercando la pace in quelle cose nelle quali non solo non si trova, anzi è insita in esse una fatica continua che ci conduce ansiosi fino all’estremo Egitto, cioè nelle tenebre di fuori, dove è pianto e stridore di denti; e se non ci verrà aiuto per dono divino, diventiamo Iside, cioè terra, perché questo Iside significa; e da tutti siamo calpestati, come cosa vile e abbietta.

Ciò sia detto quanto al senso naturale e segreto. Per quello storico, basta quanto sopra si è detto su Iside, figlia di Prometeo, se vogliamo che questa sia, piuttosto che quella Iside egiziana. Ma Teodonzio e Leonzio chiaramente negano che questa Io sia passata in Egitto e che mai abbia avuto il nome di Iside, ché anzi dice uno di loro che essa regnò presso gli Ioni e che così li chiamò dal suo nome. Sebbene ad essi molto sia contraria la testimonianza di Ovidio, molta credibilità invece porta loro la incongruenza dei tempi. Eusebio infatti attesta nel Chronicon che Inaco regnò in Argo attorno all’anno del mondo 3347; e lo stesso dice che regnò per cinquanta anni, tempo entro il quale è necessario sia nata Io. In questo tempo poté vivere Giove, figlio di Etere, dal quale, e da Niobe figlia di Foraneo, nacque Api, e non Epafo; mentre gli altri Giovi furono dopo di questo, il secondo dei quali è contemporaneo di Iside, figlia di Prometeo, fu nel fiore dell’età e nello stesso tempo consta che vivesse Argo che tutto vede. Poi lo stesso Eusebio, nel medesimo libro, dice che Io, figlia di Inaco, visse negli anni del mondo 3647, mentre in Argo regnava Cecrope; e che a lei si unì Giove e che nell’anno 45 (ma: 43) del regno di Cecrope passò in Egitto. In seguito ancora Eusebio, e nello stesso libro, dice che nell’anno 3729 del mondo, fu re di Argo Danao e che la sua figlia Ipermestra fu una sola persona con Iside e Io. Infine nello stesso libro afferma che, nell’anno del mondo 3783, durante il regno di Linceo in Argo e di Pandione in Atene, visse quella Ipermestra che chiamarono Iside. Questo tempo ben conviene a Giove Cretese, che fu il terzo Giove. Ed io, stupefatto da queste così diverse opinioni degli storici, non so che credere di Iside. Ma questo posso sapere: che la conformità del tempo di Iside, figlia di Prometeo, con Giove (e la storia, che se non è vera, è pur verosimile) mi porta più a lei che ad alcuna delle altre.

Ma per tornare alle cose dette da altri sull’allegoria di questa Io, dicono -lasciate le altre notizie- che di essa si inventò che fu mutata in vacca, perché era passata in Egitto su una nave che aveva per insegna una vacca. Ed essa poi a lungo -come dice Fulgenzio- fu tenuta in somma reverenza dagli Egiziani, ai quali insegnò l’alfabeto (mentre prima, in luogo delle lettere, usavano segni) e l’agricoltura; e -come pare a Marziano- scoprì a prima semente e l’uso del lino e lo fece seminare; e mostrò loro anche molti usi vantaggiosi. Agostino inoltre nel De civitate Dei dice che, secondo alcuni scrittori, ella venne come regina in Egitto dall’Etiopia e che sposò Api, suo nipote: il quale dopo di lei (e alcuni dicono anche prima) passò pure in Egitto. Eusebio invece scrive che essa sposò un tal Telegono, e da uno dei tre, o Giove o Api o Telegono, vogliono abbia partorito il figlio Epafo. Questa inoltre, per i vantaggi dati agli Egiziani con i suoi insegnamenti, fu da tutti ritenuta dea; e, mentre viveva, onorata di ogni culto divino, e dopo la morte, come dice Agostino sopra citato, fu ad essi tanto cara, che diventò reo di colpa capitale uno che dicesse che era stata creatura umana.