V Secolo a.C.
ESCHILO, Prometeo Incatenato, Terzo Episodio
Entra Io, in delirio. Ha una maschera bovina. Scarta come giovenca resa pazza dall’aculeo di un tafano. A voce altissima.
Io: Che paese? Che ceppo? Mi abbaglia,/la vista di uno imbrigliato alla roccia al flagello del gelo./Chi sarà? Che colpa sconti, morendo? Fa’ segno,/che terra è qui, meta al mio randagio penare?/Aaah!/Soffro! Ecco, lancinante aculeo/lo spettro di Argo, sangue di Terra./Svialo, mio dio!Orrore/il bovaro -lo vedo!- costellato di occhi./Cammina. Ho addosso il suo occhio. Mi spia./Occhio morto, e neanche la terra lo vela!/A darmi tormento/varca l’abisso, mi bracca: cagna magra, sbandata sulle dune salmastre. Soffuso m’asseconda l’intreccio/di canne e di cera,/docile eco, ritmo che spande sopore. Aaah, che dolore!Dove, dove mi scaglia/la corsa randagia che si perde lontano?/Tu, figlio di Crono, dove, dove, m’hai colto/in peccato, da gettarmi addosso/le stanghe del mio tormento?/Aaah! Perché mi trapassi/-spavento d’aculeo ch’inchioda- spaurita in delirio?/Fammi lucente al tuo fuoco, cancellami/giù nella terra,/offrimi, carne alle zanne/dell’abisso marino./O Sovrano, non chiuderti/al mio supplicare./Basta con l’immensa corsa randagia:/la corsa, la mia lotta è finita. Mi manca l’idea per spogliarmi dei mali./Mi senti? Sono io giovinetta che ti grido, io, mascherata di corna, giovenca.
Prometeo: Potrei non udirti? Tu sei quella di Inaco, la giovane che l’aculeo sferza. Sei quella che scalda Zeus di passione. Incarni l’odio di Era: ora gareggi senza via di scampo, tappa di corsa che non ha confini.
Io: Da che fonte tu chiami per nome mio/Di’ a me, di’ alla sofferente chi sei (padre?/Tu o dolente che a me addolorata/parlasti sincero, tu che hai saputo/dare il suo nome al male sfrecciato da dio/a smagrirmi, trapassarmi/con sproni di sbandato furore./Aaah!/che miseria, i miei scatti continui/-via senza cibo- scalpitare, a folate,/e approdare quassù, sfiancata dal carico d’odio/fondo, cosciente di Era./Gente, voi che avete nemico il destino,/che soffre la mia tortura?/Avanti, scava,/illumina il fondo della mia passione che m’attende la varco. C’è mezzo, da sanare il mio male?/Devi dirlo, se sai./Parla alto, svelalo/alla donna che lotta col suo vagare.
Prometeo: Scaverò fino in fondo. Dirò quanto cerchi sapere. Non intreccio storte parole. Con trasparente linguaggio, come è dovere aprire le labbra con chi ti è vicino. Sono io, fautore del fuoco ai viventi: Prometeo!
Io: Oh splendore di bene che illumina il mondo mortale, Prometeo! Ma tu soffri, che colpa sconti col tuo sacrificio?
Prometeo: In questo punto ho placato i lamenti sul mio soffrire.
Io: Vorrai però porgermi questo favore…
Prometeo: Di’ la richiesta. Puoi apprendere tutto da me.
Io: Chi t’inchiodò al precipizio? Spiega.
Prometeo: L’insidia di Zeus. E il braccio di Efesto.
Io: E’ castigo il tuo. Di quali delitti?
Prometeo: Basta. Per me t’ho svelato abbastanza.
Io: Prego, va’ avanti. La meta, la meta del mio correre: dilla! E di’ il giorno: chissà se esiste nel mio futuro di pena.
Prometeo: Non sapere il futuro vale più che saperlo, per te.
Io: Non tenermi nel buio sul mio futuro soffrire.
Prometeo: Bene, non voglio usurpare il favore che ti spetta.
Io: Però dubiti. Non vuoi farmi pienamente luce?
Prometeo: Non è chiuso egoismo. Tremo, a schiantarti la mente.
Io: Non penare per me prima del tempo. Io sono contenta così.
Prometeo: Lo vuoi di cuore. Bisogna parlare. Attenta.
Corifea: Fermo, ti prego. Ci sono anch’io. Fa’ cosa grata anche a me. Vogliamo la storia del suo delirio, dalle sue vive labbra il racconto del suo devastante passato. Poi s’istruisca da te sulla lotta che le resta da vivere.
Prometeo: Io, devi scegliere di piegarti, assecondare la loro preghiera. Bada, anzitutto: hanno il tuo sangue paterno. E disperarsi, sospirare sul proprio passato -se poi che t’ascolta ti porge tributo di pianto- è prezzo buono per il tempo speso.
Io: Non so certo tradirvi. State per udire l’intera mia storia, con lingua sincera, com’è vostro volere. Confesso. Ho pudore anche solo a narrare il gelido vento alitato da un dio, il mio bel viso stravolto, disfatto, la radice di quell’assalto che mi fu addosso di volo, a prostrarmi./Sì. Nelle notti era fitto aleggiare di sogni al mio letto di giovane, a sedurmi, con voci come carezze: “Fanciulla, il destino ti bacia. Perché questa verginità caparbia, se t’è offerto di godere -è il tuo fato- di nozze sovrane? Zeus, sì Zeus è tutto caldo nel tuo strale, della tua febbre. La sua voglia è godere Afrodite con te. Figlia, non scalpitare contro il letto di Zeus. Alzati, corri alla radura di Lerna, nel folto, laggiù agli steccati, ai prati paterni: che tu sia di refrigerio all’occhio spasimante del dio!” Ecco che specie di sogni gremiva la mia pace notturna. E io gemevo! Alla fine trovai la forza: svelai a mio padre le visioni che mi popolavano il sonno. E s’affannava, con gli esperti del dio, che corressero fitti a Pito, a Dodona: il suo scopo era grazia dei numi. Al loro ritorno era sempre sfarfallio di presagi sfumati, insensati: una lotta, sbrogliarli. Finché trasparente parola venne a mio padre. Alto, imperioso comando, e diceva di me: cacciarla dalle mura e dalla terra paterna, randagia fino all’orlo remoto del mondo, animale slegato. Se negava, scattava incandescente saetta da Zeus: e il suo ceppo intero svaniva nel buio. Credette mio padre all’Obliquo, alla sua voce presaga. Mi gettò sulla strada, mi sprangò in faccia le porte: lui, disperato, io disperata! Ma lo schiacciava lo sperone di Zeus, senza via di fuga: era agire obbligato. D’un tratto si sfaceva la mia bellezza, e insieme il sentimento. Sulla fronte le corna -ecco, guardate- addosso le fitte, i morsi del moscone, a lacerarmi: delirio di scarti e di balzi, fino alla cara, dissetante fiumana Circneia e allo sgorgo di Lerna. M’era ombra un bovaro, sangue di Terra, Argo: pura rabbia furiosa, una folla di occhi di avidi sguardi a contare uno dopo l’altro i miei passi. Una fine fatale -insperata, fulminea- lo strappò alla vita. Da allora, ai colpi d’aculeo, celeste scudiscio, io mi trascino fuggendo paese dopo paese./Ecco, sai la vicenda. Se puoi dire il fondo del mio sacrificio spiegalo. Via il consolante tepore delle bugie pietose: il più maligno vizio, ti dico, è parlare artefatto.
Coro: Via, via, frenati, basta!/Io no, io no; non osavo aspettarmi/d’udire storia fuori dal mondo/-pene, infamie, paure/riluttano, a coglierle, i sensi, la vista!-/che mi togliesse il respiro/il gelo che spira dall’aculeo a due tagli./Aaah, caso fatale:/tremo, negli occhi il passato di Io.
Prometeo: Troppo in fretta spasimi, trabocchi quasi d’angoscia. Frenati, completa la tua conoscenza con gli ultimi casi.
Corifea: Di’ tutto, spiega la fine. Chi soffre è più lieto, se apprende per tempo, scavando, il fondo dei propri dolori.
Prometeo: Il vostro volere di prima è compiuto. Fu comodo. A me, lo dovete. Volevate da lei, dal suo vivo racconto, sapere per prima la lotta che Io ha vissuto. Ora attente, vi dico la fine; i dolori che lei, questa giovane donna, deve ancora soffrire: Era è la fonte. E tu, germoglio di Inaco, chiuditi dentro il mio dire: saprai fino in fondo dove termina il viaggio./Parti da noi, volgi il viso alle sorgenti del sole e corri pianure che non sanno aratro. Toccherai gli Sciti errabondi: per alloggio tettoie a graticcio, sospesi su carovane robuste, per armi hanno archi che vanno lontano. Non devi accostarli. Lambisci col passo gli anfratti ululanti di flutti, e traversa il paese./A sinistra stanno i Calibi, fabbri ferrai: guardati bene da loro, sono incivili, scontrosi coi forestieri. Eccoti ora all’Ibistre, il fiume Furioso: il suo nome non mente. Tu non passarlo -del resto non offre passaggi- finché non ti trovi sul Caucaso, la catena sovrana. Lassù, dalla cresta più alta, il fiume sventaglia il suo soffio possente. Poi ti tocca scalare picchi compagni alle stelle, e imboccare la strada, giù al mezzogiorno, finché incontrerai le Amazzoni armate, nemiche del maschio. Questa gente, col tempo, fisserà la sua sede a Temiscira, là al Termodonte. Laggiù è Salmidesso, irta ganascia marina: odia ospitare marittimi, lei, madre snaturata di navi. Saranno le Amazzoni a dirti la via, gioiose. Così arriverai alla lingua Cimmeria, proprio alle bocche del lago, a quel varco serrato. Qui devi raccoglierti dentro il coraggio, partire, e guardare il canale Meotico. E sarà perenne nel mondo la storia famosa di questo tuo varco. Da esso avrà il nome: Bosforo, Guado di Io, la Giovenca./Così avrai lasciato la terra d’Europa, e verrai nei paesi dell’Asia. Che vi sembra: quello, il despota del cielo, non è impetuoso, troppo, con tutti? Ecco, una donna: lui, dio, per la voglia di lei le precipita addosso questa vita randagia. Aspro innamorato ti toccò, fanciulla, per la tua mano. Pensa: la vicenda che hai udito narrare non è ancora la prima nota del canto!
Io: Aaah, Io, Io!
Prometeo: Ancora tu mugoli, stridi. Che altro farai, se senti la fine dei tuoi dolori?
Corifea: Si? Narri il fondo della sua passione?
Prometeo: Gelido mare nemico di penosi strazi.
Io: Ormai, che mi frutta la vita? Anzi, dovevo essere svelta, lasciarmi cadere dal picco pietroso. Uno schianto alle rocce, ed era il sollievo da tutti i tormenti. Sì, meglio la morte, e finirla per sempre, che vivere intero -catena di giorni maligni- il mio patimento.
Prometeo: Che schianto, per te, se vivessi la mia agonia! Non esiste la morte, per me: è fatale. Quello mi sarebbe sollievo al tormento. Nel mio avvenire non è tracciata sicura frontiera al dolore: se prima Zeus non crolla dal suo potere di despota.
Io: Esiste, quel tempo: Zeus che crolla dal regno?
Prometeo: Festa grande, per te, vedere quel giorno, io credo.
Io: E come, altrimenti? E’ colpa di Zeus la mia prova.
Prometeo: Rallegrati: quest’evento è già quasi realtà.
Io: Che mano lo spoglierà dal suo scettro imperiale?
Prometeo: La sua. Sarà colpa del suo vuoto cervello.
Io: Come si svolge? Di’ chiaro, se non temi colpo maligno.
Prometeo: Sposa. Sposalizio che col tempo l’amareggia di pena.
Io: Creatura celeste o vivente? Se t’è dato, rispondi.
Prometeo: Non chiedere “chi”! E’ segreto che non si rivela.
Io: E’ colpa della sposa se Lui piomba dal trono?
Prometeo: Di lei. Farà un figlio più potente del padre.
Io: Non c’è mezzo per lui di sviare il futuro?
Prometeo: Nessuno: solo io, quando mi siano aperti i miei ceppi.
Io: Chi può aprirli, se Zeus è contrario?
Prometeo: Dev’essere uno che viene da te, dal tuo sangue.
Io: Come? Un figlio, da me ti strapperà alla tua pena?
Prometeo: Il terzo nato: conta dieci nascite prima.
Io: Non è esplicito questo tuo canto presago.
Prometeo: Anche tu, non chiedere più. Non sviscerare la pena futura.
Io: M’allunghi una grazia, poi la ritrai. Non farlo.
Prometeo: Due vicende. Una soltanto te ne posso offrire.
Io: Due, quali? Spiegale, prima e concedimi una scelta.
Prometeo: Concedo. Tu scegli. O svelo chiara la passione che ancora ti attende, o quello che verrà a slegarmi.
Corifea: Fanne uno a lei, l’altro a me di questi favori. Accetta, non deluderci: meritiamo il racconto. A lei profeta l’ultimo peregrinare, a noi il liberatore. Lo voglio, ti dico.
Prometeo: Se vi sta tanto a cuore, non posso impedire: ecco l’aperta predizione, come voi insistete./Io comincerò da te. Svelo il gorgo infinito del tuo vagare: segnalo, tu, nei fogli profondi della memoria. Compiuto il tuo guado del fiume, frontiera di due terreferme, cammina alle fonti lucenti del sole, passa fragore di mare ed ecco, ti trovi alle zolle Gorgonie, laggiù, a Cisterne. Vi stanno le Forcipi, tre, millenarie fanciulle -cigni, a vederle- una sola pupilla per tutte, un identico dente. Mai si posò su di loro sguardo radioso di sole, o di notte lunare. Accanto, le loro sorelle, pennute, villose di rettili: tre Gorgoni, schifo del mondo. Un’occhiata, e non c’è creatura che serbi il respiro. Ti serva da scudo il racconto. Attenta. Ecco il quadro che segue: ripugna, al contatto. Schiva la muta di Zeus, i Grifoni: becchi taglienti, non sanno ringhiare. Con loro il branco sgroppante dei guerci Arimaspi, al galoppo: vanno alla sponda del rivo Opulento, che fluisce dorato. Gente da non starci vicina. Poi arrivi alla terra ai confini del mondo, agli uomini negri che vivono sotto le fonti del sole, là dove scorre L’Etiope, il fiume Riarso. Inoltrati lungo gli argini, finché incontrerai la cascata: laggiù, dalle alture dei Libri sgorga il flusso adorato e prezioso del Nilo. Sarà lui ad aprirti la strada, giù al triangolo di terra che si chiama Nilotide. A tale distanza, Io, è deciso che sorga a te a al tuo ceppo la nuova dimora. Se nel racconto c’è parola che zoppica, chiusa, ostinata, chiedi due volte, illumina la tua conoscenza. Tanto è fermo il mio tempo: più di quel che vorrei.
Corifea: Continua, se t’è rimasta una fine -o parole taciute- da predire al suo devastante vagare. Ma se la tua storia è conclusa, rendi a noi il favore richiesto. Certo ricordi.
Prometeo: Conosce ormai l’ultima soglia del suo viaggiare. Ma voglio ridirle le pene patite, prima di giungere qui. Che sappia: non è folle la storia che ha udito. Sarà questo il pegno della mia profezia./Lascio nell’ombra il groppo pesante del tuo passato, eccomi dritto alla soglia del tuo viaggio randagio./Dopo che fosti alle campagne Molossie, a Dodona -la cresta scoscesa, dov’è il soglio veggente di Zeus Tesprozio e il sovrumano prodigio, le querce eloquenti, la cui voce gridò, tersa, senza giri viziosi, che tu diventavi col tempo sposa illustre di Zeus: c’è sprazzo di festa, per te, in quel tuo passato?- poi partisti, e a colpi d’aculeo, per la strada rasente la spiaggia, scappasti al seno vasto di Rea, e da qui raffiche di delirio, a rimbalzarti in scorrerie senza fine. Ma tempo verrà, e quel rientro marino -ricordalo bene- Ionio, avrà nome: testimonio del tuo viaggio alle genti del mondo. Ecco, questa è per te garanzia del mio intelletto che sa spingere l’occhio ben oltre la chiara parvenza dei fatti./Voi e lei, qui, unitevi, attente: svelo la fine. Ritorno nel solco della mia storia di prima. Esiste città, estrema del paese d’Egitto, Canobo: alla bocca del Nilo, alla sua massicciata terrosa. In quel punto Zeus ti ridà sentimento: col tocco, delicato sfiorare di mano che non sa tremore. E darai alla luce Epafo negro, Figlio del tocco, che dice col nome il suo essere nato da Zeus. Sarà lui a far fruttare la piana, quanta ne irrora il corso possente del Nilo. Alla quinta progenie da Epafo, cinquanta fanciulle sbocciate al suo ceppo verranno ad Argo di nuovo: sarà scelta ribelle, fuggitiva ripulsa all’unione nuziale -intreccio di sangue- ai cugini. La passione di questi sarà fondo delirio: falchi che tortore non sanno staccare, caleranno alla caccia di nozze. Caccia vietata: e un dio sottrarrà questa carne di donna. Si spalancherà per loro il suolo Pelasgio, prostrati da mano armata, assassina, di donna: scatto insonne, la notte di nozze! Sposa che strappa al suo uomo la vita: una per una, tempra la lama tagliente allo squarcio. Fosse tale, a chi mi odia, l’assalto d’Amore! Ma la voglia d’amare sarà magico freno a una giovane donna: non può uccidere l’uomo a letto con lei, si smussa il suo progetto di morte. Tra due, sarà questa la sua scelta: avrà nome di fragile donna, non d’assetata di sangue. Sarà lei a far nascere ceppo di re, in Argo. Ma scavare, scorrere i fatti richiede storia infinita. Da questa semenza sorgerà tempra d’eroe, destinato a brillare per l’arco: lui mi salverà da questo patire! Così suona il presagio che mi narrò la madre mia millenaria, la Titanide Temi./Il momento, il mezzo è storia che non termina mai:e tu non hai frutto a saperla completa.
Io: Aaah! Pietà!/M’arroventano crampi, raffiche in cuore/dementi, punta d’aculeo,/mi trapassa, m’agghiaccia./Scalpita il cuore d’angoscia,/si torcono gli occhi -ruote impazzite-./Cieco delirio, a folate, mi scaglia/fuori di me. Si scatena la lingua./Impasto fangoso il mio dire, risacca che picchia nei flutti di amara rovina.