Deufr08

1563

GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA, Delle Metamorfosi d’Ovidio, Per Gio. Griffio, Venezia, 1563

Libro I

Solo una cosa ho spenta, hora à me pare,

Che s'havriano à mandar le cose uguali.

Perche per tutto, ove la terra appare,

Han preso imperio le furie infernali,

Pensate, che giurato habbian di fare

Gli huomini tutti i piu nefandi mali,

Si ch' io condanno ogni mortale à morte,

Perche pari a l'error la pena porte.

 

La sentenza di Giove ogn'un conferma

Altri con cenni, et altri con parole,

E stan con fantasia stabile, e ferma,

Che splender debbia à novo mondo il Sole.

Pur' à ciascun, che 'n quel pensier si ferma,

Sì general iattura incresce, e dole,

Che san, che 'l mondo esser non può perfetto

Privo de l'animal, c'ha l'intelletto.

 

Chi porterà (diceano) in nostro honore

Ne' sacri altari gli odorati incensi ?

S'han forse à dare in preda al gran furore

Le città d'animali horrendi, e immensi ?

Lasciate andar, c'ho questa cosa à core,

Rispose Giove, e non sia chi ci pensi,

Con mirabile origine io fo stima

Far gente assai dissimile à la prima.

 

Co' suoi folgori ardenti allhora allhora

Giove distrutta havria tutta la terra:

Ma tanti fochi ben poteano anchora

Ardere il cielo, e ruinarlo à terra.

Sa ben, che 'l tempo ha da venire e l'hora,

Che 'l foco à tutto 'l mondo ha da far guerra,

E consumar con le sue fiamme ardenti

La terra, il cielo, e tutti gli elementi.

 

Da parte tosto ogni pensier si mette,

Che d'intorno à l'incendio il cielo havea,

E si ripongon tutte le saette

Che fa Vulcan ne la montagna Etnea.

In quanto al modo, ogni Dio si rimette

A quel, ch'occulto anchor Giove tenea,

Che fu contrario al primo, e à tutti piacque

Di nasconder <st1:personname productid="la Terra" w:st="on">la Terra</st1:personname> sotto l'acque.

 

Fa dire ad Eolo la corte superna,

Che vuol la terra à l'acqua sottoporre.

Egli, che i venti à suo modo governa,

E ch'à sua posta gli può dare, e torre,

Rinchiude Borea in una sua caverna,

Et ogni vento, che la pioggia abhorre,

E l'Austral manda fuor, ch'è detto il Noto,

Che per molti suoi segni à molti è noto.

 

Con l'ali humide sue per l'aria poggia;

Gl'ingombra il volto molle, oscuro nembo.

Dal dorso horrido suo scende tal pioggia,

Che par, che tutto 'l mar tenga nel grembo.

Piovon spesse acque in spaventosa foggia

La barba, il crine, e 'l suo piumoso lembo.

Le nebbie ha in fronte, i nuvoli à le bande

Ovunque l'ali tenebrose spande.

 

Quando con l'ali egli dibatte, e scuote

Le nubi intorno, e fra le palme preme,

Un strepito, un romor l'aria percuote,

Che par, che l'aria, e 'l ciel s'urtino insieme.

Vien giù la pioggia più spessa che puote;

L'aria percossa ne borbotta, e freme.

Arbori spoglia, et herbe atterra, e biade

Dove la pioggia ruinosa cade.

 

Il misero villan, ch' intorno mira

Venir dal cielo il non pensato danno,

Con intenso dolor piange, e sospira,

Che perde il suo lavor di tutto l'anno.

L'arco incurvato suo carica, e tira

La nuntia di Giunon, che quando vanno

L'aria offuscando i più torbidi venti,

Porge à le nubi i debiti alimenti.

 

E non bastando il mal, che à basso infonde

Il ciel, continuo, ch'ogni cosa atterra,

Nettuno con le sue mortifer'onde

Contra il terren prepara un'altra guerra.

Perche più facilmente lo sprofonde,

Gli dei chiamò de l'acque de la terra,

E lor disse in parlar rotto, et altero,

Il giusto de gli Dei sdegno, e pensiero.

 

So ben, che non bisogna ch'io v'essorti

(Disse) ad empir la volontà di Dio,

Che vuol, che tutti gli huomini sian morti

Sotto il potente, et ampio imperio mio.

Hor vi mostrate impetuosi, e forti

A ruina del mondo infame, e rio;

Hor vedrò, con che cor ciascun si move

Per ubidire il suo signore, e Giove.

 

Com'egli ha detto, si torna ogni fiume,

E rompe à l'acque ogni riparo, e bocca.

Percote col tridente il marin Nume

L'afflitta terra, et à pena la tocca,

Che trema tanto fuor del suo costume,

Ch' in sì gran moto il mar crudel l'imbocca,

Trema, e par ben, che in precipitio cada,

E d'inghiottirla al mar s'apre la strada.

 

Corrono al mar con furia i fiumi alteri

Di tanta altezza lor gonfiati, et empi,

E traggon seco imperiosi, e feri,

Arbori, et animali, e case, e tempi.

Ruinan' i palazzi interi interi,

Quel che mai non poter tanti anni, e tempi,

E s'alcun restò saldo come prima

Gli coprì l'acqua l'elevata cima.

 

Questo e quel fiume tanto, e tanto ingrossa,

Che al fin congiungon le parti supreme,

E fanno di molt'acque un'acqua grossa

Per gire in una massa unite insieme.

Van con tanta arroganza e con tal possa,

Che 'l mar sdegnato le ribatte, e preme.

Esse con tal furor urtan, che pare

C'habbian fatta una lega contra il mare.

 

Nel mare in quell'incontro entrano i fiumi

Ne' fiumi il mare, e rotta horrenda fassi,

Prevale al fine il mare, onde i cacumi

De gli alti monti ogni hor si fan più bassi.

Escon le fere de gli hispidi dumi,

E gli huomini di casa afflitti e lassi,

E 'n cima al monte patrio se ne vanno,

E 'ntorno intorno assediati stanno.

 

Stansi piangendo il lor crudel destino

E l'acqua tuttavia cresce et abonda.

Han grande invidia à l'Alpi, e à l'Apennino,

Che par che poco anchor teman de l'onda.

Superbo in tanto il gran furor marino

Gli huomini, gli animali, e 'l monte affonda.

Nuota il lupo fra capre, e fra montoni,

E gli huomini fra tigri, e fra leoni.

 

Non vale à l'huomo il suo sublime ingegno,

Nulla giova al leone esser feroce,

Non à Signori haver' imperio, e regno,

Poco rileva al cervo esser veloce,

Che 'l furore implacabile, e lo sdegno

Del mare à tutti parimente noce.

Van fra gli arbori i pesci ne le selve,

Già nidi, e tane d'augelli, e di belve.

 

Molti fuggiti in qualche monte alpestre,

In torre, ò rocca van correndo à porsi,

Cercando al mar con le lor proprie destre

Con infiniti mezzi contraporsi.

Rompe l'onda sdegnata usci, e fenestre,

Ch'al fermo suo voler cercano opporsi;

E batter quella rocca mai non cessa

In fin che non l'ha presa, e sottomessa.

 

L'afflitto montanar col figlio in braccio

Di casa fugge, e maggior monte sale:

L'acqua l'incalza, e già v'è dentro un braccio.

Sopra un'arbore monta, e si prevale:

L'acqua ancho il giunge. ei si sostien col braccio

Al più supremo ramo, e non gli vale,

Che soverchiano al fin le tumide onde,

Quel monte altier, quell'elevata fronde.

 

Le navi, che solean per l'alto mare

Andar solcando il lor noto viaggio,

Hor sopra terra si veggon portare

Sopra questa cittade, e quel villaggio:

E non è lor possibile contrastare,

À tanto, e non mai tal provato oltraggio;

L'onda è si grossa, il vento è tanto grave,

Che forza è, che perisca ogni gran nave.

 

Hor come dunque i miseri mortali

Poteano in tanto mar notando aitarsi?

Come poteano i più forti animali

Varcar tant'alto pelago, e salvarsi?

Si tenne un tempo il vago augel su l'ali

Cercando arbore, ò terra ove posarsi,

E stanco al fin lasciò nel mar cadersi,

Che tutti altri animali havea sommersi.

 

Era gia 'l mare à tanta altezza giunto,

Che superava ogni superbo monte:

E per tutto era il mar col mar congiunto;

Fatto era mare il lago, il fiume, e'l fonte.

Il mar potea vedersi in ogni punto

Bagnare intorno intorno ogni Orizonte.

Tutto 'l mondo era mar per ogni sito,

Ne'l mare havea da verun lato lito.

 

Se i nuvoli, e le nebbie folte, e nere,

Non t'havesser celato Apollo il volto:

Come havresti sofferto di vedere

Il mondo, à cui tu splendi in mar sepolto?

Havresti il pianto potuto tenere?

Non haveresti il carro altrove volto?

Ma tu, per non veder caso si duro,

Ti velasti d'un nembo così scuro.

 

Ditemi, havete voi frenato il pianto

Nereide, e voi maritimi divini,

Vedendo l'human seme tutto quanto

In bocca d'Orche, e di mostri marini?

Et ogni luogo sacro, e tempio santo

Ricetto di Balene, e di Delfini?

Che dovea fare in voi vista si tetra,

S'hor da chi non la vide, il pianto impetra ?

 

Fra gli Attici, e gli Aonij un monte siede,

Che con due sommità s'erge à le stelle,

La cui cima à le nubi soprasiede,

Ne teme l'oltraggiose lor procelle;

Due quivi alme arrivar, d'amor, di fede,

E d'ogni altra virtute ornate, e belle:

Ch' in una piccioletta, e debil barca

Scelse, e salvò fra tutti il gran Monarca.

 

Il figliuol di Prometheo, io dico quello,

Che sol con la consorte era rimaso,

Sommerso ogn'altro dal marin flagello

Dal Borea à l'Austro, e da l'Orto à l'Occaso.

Tosto, che s'accostò col suo battello

À la cima del monte di Parnaso,

Le Coricide Ninfe, e Themi adora,

Che l'oracol tenea de' fati allhora.

 

Più giusto huom mai non fu, ne più leale

Di quel, che solo allhor fuggì la morte;

Ne più religiosa, e spiritale

Donna, de la prudente sua consorte.

Giove, che dal celeste tribunale

Scorse tutte le genti esser già morte,

E 'l viver solo à due corpi permesso,

Uno de l'un, l'altro de l'altro sesso;

 

Trovandogli ambo fidi, ambo innocenti,

Ambo d'ogni virtù nobile ornati,

Fè per l'aria soffiar gli Artici venti,

Da cui fur tutti i nuvoli scacciati.

Rasserenati tutti gli elementi,

Ch'eran lunga stagion stati offuscati,

Mostrò la terra al mondo de le stelle,

Et à la terra le cose alte, e belle.

 

Il gran Rettor del pelago placato,

L'ira del mare in un momento tronca,

Fà, che 'l trombetta suo Triton dà fiato

À la cava, sonora, e torta conca.

Al suono altier da tal tromba spirato

Non può risponder concavo, ò spelonca;

Ma rompe in modo l'aria, e con tal volo,

Che ne rimbomba l'uno, e l'altro polo.

 

Sparto c'hebbe Triton l'horrendo suono,

Che vuol, che à i luoghi lor ritornin l'acque,

Ch' insieme, dolci, e salse unite sono,

Fer tutti quel, che al Re de l'onde piacque.

Si mise ogni acqua in corso, e in abbandono

Fin, che nel primo suo letto si giacque.

Già l'onda tuttavia manca, e discresce,

E, secondo che manca, il terren cresce.

 

Il noto lito già percoton l'onde

Del mar, che poco cura uscirne fuore.

Ogni fiume ha da i lati argini, e sponde,

Alte per l'ordinario suo furore.

Se vivessero quei, che 'l mare asconde,

Saria resa la terra al primo honore.

Standosi adunque muta in ogni canto,

Così l'huom ruppe l'aria, in voce, e 'n pianto.

 

O Pirra, ò mia sorella, ò mia consorte,

O donna da gli Dei sola salvata,

O sola à me di sangue, e d'un più forte

Nodo d'affinità giunta, e legata,

O sola, à cui m'unisce hor l'empia sorte,

Ch'in noi l'humana spetie ha riservata,

Ecco hor noi siam tutta l'humana prole,

E dove nasce, e dove more il Sole.

 

Noi tutto 'l popol, noi tutta la gente,

Di tutto 'l mondo siamo insieme unita,

Ben che anchor l'aria mi turba la mente,

Ne siam molto securi de la vita,

Deh che faresti misera, e dolente,

Se fossi senza me dal mar fuggita?

Come sola il timor discacceresti?

Chi ti consoleria? dove n'andresti?

 

Sappi pur certo compagnia diletta,

Che se l'onda ver noi cruda, et avara,

Havesse anchor di te fatto vendetta,

E me lasciato in questa vita amara,

lo ti seguiterei con quella fretta,

Laqual ricercheria cosa sì cara,

Anch' io mi gitterei nel mar profondo,

Per non star sol nel desolato mondo.

 

Sapessi almen con la mirabil arte

L'huom di terra formar, del padre mio,

E dargli l'alma, e riparare in parte

Quel, che morrà, se tu ti muori, et io.

Hor siam de l'huomo essempio in ogni parte,

A i monti, à i boschi, à gli elementi, e à Dio;

Et odon solo i nostri alti lamenti,

Le rive, i sassi, le campagne, e i venti.

 

Miseri, che farem noi soli in terra?

Già non potremo habitar noi per tutto.

Come empieremo il mondo, che la terra

Non renda in vano il suo pregiato frutto?

Come farassi, quando andrem sotterra,

Ch'ella non resti desolata al tutto?

Qual luogo habiteremo, ò quello, ò questo,

Che non lasciam dishabitato il resto?

 

Voi, che non mai con mille, e mille ingegni

Nel volere acquistar spuntaste avante,

Voi, che per farvi ricchi, agiati, e degni,

Vedeste hora il Ponente, hora il Levante,

Voi, che per possedere imperij, e regni,

Havete fatte tante guerre, e tante;

Che fate, ahi lasso, perche non correte

À farvi hor quella parte, che volete?

 

Fermò 'l parlare, havendo cosi detto,

Ma non potè fermar l'immenso pianto;

Straccia <st1:personname productid="la Donna" w:st="on">la Donna</st1:personname> il crin, percote il petto,

Di lagrime spargendo il viso, e'l manto:

E s'è lo spirto in modo in lei ristretto,

Che non puote formar parola intanto,

Piange, e stà muta, e 'l fido sposo abbraccia,

E non sà che si dica ò, che si faccia.

 

Conchiudono ambo al fin che si ricorra

À l'oracol celeste per aiuto,

Pregandol, che risponda, e lor discorra

Come han da racquistar quel, ch'han perduto.

Non havendo altra via, che à ciò soccorra,

Se ne vanno al Cefiso, che venuto

Se n'era già ne le sue note sponde,

E di mondar ne l'anchor torbide onde.

 

Sparti de l'acqua il capo, e 'l vestimento,

Al tempio van de la divina Theme,

Dove il loto ascondea di fuori e drento

E le pareti, e le parti supreme.

Stassi ne' sacri altari il foco spento,

Giunti ivi s'inchinaro à terra insieme,

E poi c'hebber baciato il freddo sasso,

Incominciar con suono afflitto, e lasso.

 

Se mai posson del ciel mitigar l'ira

I giusti preghi de' mortali in parte,

Il modo in noi Themi fatale inspira

Da riparar l'humana specie, e l'arte.

A le cose del mondo attendi, e mira,

Che son tutte sommerse in ogni parte.

<st1:personname productid="la Dea" w:st="on">La Dea</st1:personname> si mosse à la giusta proposta,

Dando à l'intento lor questa risposta.

 

Del tempio uscite, e discinte c'havrete

Le vesti intorno, le tempie velate;

De la gran Madre poi l'ossa prendete,

E quelle dietro à le spalle gittate.

Stero un gran pezzo stupefatte, e chete

Quell'anime trafitte, e sconsolate:

Parla al fin Pirra, e nega che s'adempia

La risposta fatal, crudele, et empia.

 

Perdonami, dicea, sublime, et alma,

Immortal Dea, se ben non mi son mossa

Ad ubidir, che temo offender l'alma

De la gran madre mia gittando l'ossa.

Pianger non cessa, e batter palma a palma,

Ch'altro non sa che più giovar le possa.

Pur ripensando al dir de gli alti Dei,

Cosi Deucalion parlò con lei.

 

Pirra l'opinion tua di molt' erra,

Se, che l'Oracol ne comandi, credi,

Che con le putride ossa homai sotterra

Crear dobbiamo al mondo i novi heredi.

Io so che la gran madre è la gran terra;

Son l'ossa sue le pietre, che tu vedi.

Ne pensar posso, che l'Oracol falle,

Se quest'ossa gittiam dietro à le spalle.

 

Ben che la donna confortasse alquanto

Quel, che 'l marito suo detto l'havea,

E se ben fu quel senso fido, e santo,

Non però fermamente si credea:

Pur s'accordaro di provarlo in tanto

Ch'altro à la mente lor non occorrea.

E se ben parea lor cosa alta, e nova:

Che nocer potea lor farne la prova?

 

Escon del tempio, e si bendan la fronte,

Indi ciascun di lor scinto, e disciolto,

Gli spessi sassi, che produce il monte,

Getta à la parte, ove non guarda il volto.

Io dirò cose manifeste, e conte,

Nè forse mi sarian credute molto,

Dicendo quel, ch'ogni credenza eccede,

Se non ne fesse il tempo antico fede.

 

I sassi sparti per piani, e per colli

Secondo la fatal prefissa norma,

Deposta la durezza, e fatti molli,

Cominciaro à sortire un'altra forma.

Già si scorgono e capi, e braccia, e colli,

E d'huomini imperfetti una gran torma,

Simili à i corpi ne i marmi scolpiti,

I quai siano abbozzati, e non finiti.

 

L'humida herbosa lor parte terrena

Cangiossi in carne, in sangue, in barbe, e 'n chiome.

E quella, che ne' sassi è detta vena,

Tenne in quest'altra forma il proprio nome.

Le parti di più nervo, e di più lena,

Diventar nervi, et ossa, e non so come.

Prese ogni sasso quel divino aspetto,

C'ha il senso esteriore, e l'intelletto.

 

E come da gli Dei lor fu concesso,

I sassi, che da l'huom furo gittati,

Tutti sortir faccia virile, e sesso.

Fur tutti gli altri in donne trasformati.

Ben ne facciamo esperienza adesso,

Da che duri principij siamo nati.

Perciò siam forti à le fatiche, e pronti,

Che siam nati di sassi in aspri monti.