1553
LUDOVICO DOLCE, Le Trasformationi, Venezia, Gabriel Giolito de' Ferrari, 1553 (II ed. rivista e corretta), Canto II, pp. 13-16
CANTO PRIMO
...
Giove, che vide lor turbati e mesti,
Rasserenando il cielo co’ propri raggi,
Disse, nessuna cura vi molesti,
Che d’huomini prometto honesti e saggi,
Con novo e non più usato nascimento
Prole, che ogn’un ne sia lieto e contento.
Era già per mandar li ardenti strali
Per tutto’l modo in queste parti e in quelle:
Teme poi, che la fiamma inalzi l’ali
Sì che n’abbruci il regno de le stelle.
Poi vede ne i decreti alti fatali
Riposti in ciel ne le segrete celle,
Ch’a certo tempo ogni terreno loco,
Arder doveva, e consumar il foco
L’arme pon giu, ch’aprono maglie e scudi,
E contra loro ogni riparo è vano;
Al cui lavoro i gran Ciclopi ignudi
Sudar ne la fucina di Vulcano
In Mongibel sis le sonanti incudi,
Ove adopra il martel piu d’una mano:
E pensor estinguer gli huomini tra poco
Con quell’humor, ch’è sì contrario al foco.
Fa ferrare Aquilon nel cavo speco
Ad Eolo; che de’ venti regge il freno
E glialtri suoi fratei chiudervi seco
Che fan d’oscuro il ciel chiato e sereno.
Quindi esce fuor caliginoso e cieco
Noto, che d’acqua ad ogni tempo è pieno;
E con l’ali guazzose furibondo
Di terribile aspetto ingombra il mondo.
Ha più, che negra pece, negro il volto,
Ha di nembi la barba horrida e grave;
Nubilosa ha la fronte, ovunque è volto,
A cui sovente alcun mirando pave:
Ne’ canuti capegli un fiume sciolto
Si versa d’acqua, onde abondantia n’have;
Ha rugiadose ogn’hor le piume e’l petto,
Ne’ mai serena il rio torbido aspetto.
Tosto, ch’uscì de la spelunca fuori,
E con man le pendenti nubi strinse,
S’odon per tutto’l mondo alti romori;
E’l bel lume del Sol ratto s’estinse.
Iris nel drappo suo di piu colori
Dimostrandosi a noi, l’acque ristrinse:
Indi a le nubi le comparte; e quelle
Versano giu dal ciel large procelle.
Così il vento crudel, le piogge spesse,
Di che rapido fiume in terra cade;
A contadini la sperata messe
Tolgono in mezo a le mature biade;
E le lunghe fatiche in darno messe
Piange ciascun senza trovar pietade.
Ma non di Giove in ciò l’ira è finita,
Che l’ondoso fratel li porge aita.
Tosto fe ragunar Nattuno i fiumi:
I quai, poscia c’ha lui fur giunti avanti,
Già non bisogna, disse, ch’io consumi
Tempo in chiedere a voi gliusati vanti:
Hora ciascun dellìacque amici numi
Prenda sua forza, se mai l’hebbe avanti:
Aprite cio, che può impedire il calle
A l’onde vostre, e coprite ogni valle.
Questo breve parlar cotanto pote
Ne i Fiumi; che ciascun presto e leggero,
E le fonti vicine e le remote
Aprendo, corre al mare gonfio e altero.
La terra col Tridente urta e percuote
Nettuno, piu che mai, superbo e fiero.
Si scosse ella, e tremar tutte le sponde:
Quindi capace strada aperse a l’onde.
Gia per li aperti campi i fiumi vanno,
A gara ogn’un, si rapidi e possenti,
Che le minute gregge seco tranno,
Capri e Agnelli e i piu grossi armenti,
E con eguale in tutto’l mondo danno
Le case, i tempi e le meschine genti.
E, se forse da l’impeto de l’onde
Tetto riman, l’acqua dapoi l’ asconde.
...
Per l’alte selve i veloci delfini
Vanno guizzando e percuotendo i rami:
Con le damme e le pecore meschini
Nuotano insieme i Veltri e i Lupi grami.
Co’ Cinghiali e Leoni humili e chini,
E con gli Agnelli van le Tigri infami:
Ne giova al Cervo l’esser presto, e a l’Orso
Contra l’impeto fier la rabbia e’l morso.
Dopo molto cercar e aggirarsi
Il vago augello ogn’hor per l’aria a volo,
Non trovando terreno, ove fermarsi,
Al fin nl mar finì la vita e’l volo.
Cosi tutt’era mar, ne ritrovarsi
Potea fuori dell’onde un lito solo.
Ne solo un lito v’apparia di fuora;
Ma v’erano sommersi i monti ancora.
Rapì la maggior parte de’ mortali
L’acqua; e s’alcun pur ne rimase vivo,
Aspra fame con fieri horridi strali
In breve spatio il fe di vita privo.
Quel che seguì, di questi ultimi mali,
Qui non Signor, ma in altra parte scrivo:
Che, per esser men grave a chi m’ascolta,
Disserisco cantarlo a un’altra volta.
CANTO SECONDO
...
A questo Monte, che Parnaso è detto,
Dopo molto cercare in darno riva,
Servati dentro a piccolo legnetto
Deucalion con la sua Donna arriva.
Questi fra tutti, a cui fu crudo letto
L’onda, che’l resto de mortai copriva,
Per seme e per ristoro, onde s’avvivi
L’humana prole, eran rimasi vivi.
L’esser ambi sinceri e innocenti
Trovò lor presso Dio grato favore
Si, ch’ambi sol fra le perdute genti
Salvi restar da l’ homicida humore.
Quivi adunque divoti e riverenti
Rendeano a i Dij del sacro Monte honore,
E ringraziavan la bontà infinita,
Che gli havea per pietà serbati in vita
Quando quel, che comparte il caldo e’l gelo,
Vedendo, che da l’uno a l’altro Polo
Altro non appariva, che terra e cielo,
Una femina sola e un’huomo solo;
Ambi ripieni il cor di puro zelo,
Colmi d’ogni bontà, voti di dolo;
Deliberò di ritornare il mondo
Al primo stato suo bello e giocondo.
E così Giove al Re de’ Venti impone,
Che cessi homai di fare al mondo guerra.
Ei con prestezza Noto e gli altri pone
Ne la caverna, e dentro ve gli serra;
Havendo prima uscir fatto Aquilone,
Che soffiando pel ciel l’ali disserra:
Discaccia indi le nebbie, e finalmente
Lo torna, come pria puro e lucente.
Scoperse al ciel la terra, e’ l cielo ancora
A la terra apparir subito fece;
Però che’l cielo i nuvoli in poc’hora
Lasciar fuggendo,e il color di pece:
E Nettuno tra piccola dimora
L’orglioso furor mansue fece;
Che diposto il tridente e fatto humano,
Rese il turbato mar tranquillo e piano.
Chiama Triton, che da l’algosa tomba
Uscendo, a un cenno il suo voler comprese;
E subito la torta e cava tromba
Di marine Cochiglie il fiero prese:
Vi pon le labra: e cielo e mar rimbomba
Del suon, ch’a l’Orse e il Mezodì s’intese.
I fiumi e’l mar da le più basse arene
Sentir le voci di spavento piene.
Onde nel letto lor si ritornaro,
Ristringendosi l’acque, e quelli e questo:
E prima a dimostrarsi incominciaro.
I Monti, e dopo i Monti apparve il resto.
E, quanto piu il liquor dolce e amaro
Gia decrescendo, a scemar lieve e presto;
Tanto crescea il terreno: e gia per tutto
Nel suo fondo giacea l’instabil flutto.
Al fin scemando, com’io dico, l’onde,
Usciro Selve, e Boschi, e Colli fuora:
E di questi tenean l’herbe e le fronde
Non bene asciutte, il verde limo ancora.
Ma soletarie son tutte le sponde,
C’huomo piu, ne animal non vi dimora;
Fuor, che servati da benigna sorte
Deucalione, e la fedele Consorte.
A cui l’universal ruina e danno
Posta immensa pietade havea vel core;
E ne sentian cosi gravoso affanno,
Che de gli occhi le lagrime uscir fuore.
E poi, ch’alquanto insieme sfogat’hanno
Con l’humor, che pietà stilla, il dolore:
Deucalion con gliocchi ancor piangenti
A formar cominciò si fatti accenti
O fra tutte le Donne a Dio gradita,
Come sola fra tutte anima bella;
Onde ancor sola t’ha lasciato in vita
Meco, a cui cara sei moglie e sorella;
Prima per sangue e matrimonio unita,
Mercè d’amica aventurosa stella;
Hor per questa comune avversa sorte,
Che mi fa odiar la vita, e bramar morte.
Oime, che da gl’Hispani a i regni Eoi,
Et a gl’ Hircani da i vermigli liti,
Hor son ridotti in noi soli ambedoi
I popoli, che fur dianzi infiniti:
Ne sappiamo, qual fin sarà di noi,
Ne che piu n’assecuri, o che n’aiti.
Me del tempo passato anco spaventa
La imagine, che ogn’hor mi s’appresenta.
E’ ver, ch’avendo la bontà di Dio
Te riservata meco, hor mi consola.
E, qual sarebbe la tua vita, s’io
Peria con glialtri e tu restavi sola?
E chi nel caso spaventoso e rio
Ti daria aiuto pur d’una parola?
Chi con dolce conforto i tuoi dolori
Faria men gravi, o divenir minori?
Certo, quando sommersa il mar t’havesse,
Io non havrei di viver preso cura;
Ma voluto, che teco ei concedesse
Egualmente al mio corpo sepoltura,
Accio l’un senza l’altro non giacesse
O in terra, o in mare, o giu ne l’aria oscura.
Hor ben conosco, come ne la noia
L’haver compagno, è gran parte di gioia.
Duolmi sol(ma cosi piaciuto è a Dio)
Che sia l’esempio in noi di tutti posto.
Deh rinovar la stirpe potess’io
Con l’arte, onde fu pria l’huomo composto:
Che come se quell’opra il padre mio,
Così lieto quest’altra io farei tosto.
Ma questo in darno io bramo: e del suo ardire
Ei ne riceve ancor pena e martire.
Hor piu non è rimedio, ne riparo
A la stirpe, c’homai non venga meno;
Che in un girar di ciglio il tempo avaro
Puo disfar questo human peso terreno.
Poi, c’hebber cosi detto, ambi d’amaro
Pianto insieme bagnar le guancie e’l seno;
E’l cielo empiendo de’ sospir cocenti,
Stettero alquanto taciti e dolenti.
Asciugando nel fin l’humido ciglio
Disposti insieme e risoluti foro
Di chieder a gli Oracoli consiglio
Del pietoso e benigno intento loro.
E chi potrarne fuor d’ogni periglio,
Senon l’aiuto del supremo coro?
L’huomo diceva. Il cielo a chi lo chiede
Con salda fe, mai non negò mercede.
Ma però, che di preghi, o di lamenti
I Dei de’ peccator non fanno stima;
M’ascoltano li mondi e innocenti,
(Benche qual’e’, che giunga a questa cima?)
Bisogna, ch’i difetti nostri spenti
Siano con l’acqua, e gli purghiamo prima:
Che non lunge di qui le sacre sponde
Son di Cefiso, e le sue luci d’onde.
Fatto il santo pensier, senza dimora
Al fiume va la bella coppia mesta:
E de l’acqua non ben purgata ancora
Si sparser sopra i panni, e’n su la testa:
Poi vanno al tempio, in cui <st1:personname productid="la Dea" w:st="on">la Dea</st1:personname> s’honora
Chiamata Themi, a i vaticinij presta:
Themi, che sempre ne l’honeste cose
A chi la dimandò, lieta rispose.
Di bianco marmo è il Tempio, e fabricato
Da dotta man d’Artefice perfetto:
E’ ver, che’l musco in molte parti nato
Nascondeva il gentil lucido aspetto.
In mezo era l’Altar prima honorato,
Senza alcun foco, squallido e negletto:
E l’imagine santa de <st1:personname productid="la Dea" w:st="on">la Dea</st1:personname>
Tinta e guasta da l’acqua ivi giacea.
Poi, che timidi insieme e riverenti
Quella adorar con le ginocchia chine,
Disser, se honesti preghi de’ dolenti
A pietà mosser mai bontà divine;
Se non serbano ogn’hor gli sdegni ardenti
L’anime, che la su son cittadine;
Ne insegna o Dea, come tornar in vita
Possiam l’humana stirpe in noi finita.
Fu veduta inchinar la bella fronte
A l’alma Dea, quasi che dir volesse,
Ch’a la giusta dimanda aperto il fonte
Giove nel ciel di sua pietade havesse:
E tremò intorno a molte miglia il monte,
Come tutto spezzar ei si dovesse.
Indi sciogliendo a la sua lingua il nodo,
La santa Dea rispose in cotal modo.
Coppia casta, fedele, amica nostra,
Quel, che dovete far, attenti udite:
Il cielo hor si benigno a voi si mostra,
Che fian le voglie nostre hoggi adempite.
Prendete l’ossa de la madre nostra:
Ma prima fuor del sacro Tempio uscite,
E velativi il capo; e disciogliete
Le vesti, che raccolte e cinte havete.
L’ossa gettate poi dopo le spalle,
Che n’uscirà maraviglioso effetto.
A questo il Monte è la profonda valle
Ancor tremò, quasi affermando il detto.
Pensa a le voci; e discorrendo valle
Senza costrutto alcun ne l’intelletto
Deucalione; e pien di maraviglia
Tacito tiene al ciel fisse le ciglia.
Ma Pirra(la moglier) tutta commossa
Fra se duolsi di Themi: e poi non tace,
Ch’offender non dovean le materne ossa,
Che riposavan gia molt’anni in pace;
Indi a pregar Deucalione è mossa,
Che perdon chieggia; e giovi esser audace,
Che dir, che troppo a l’uno e l’altro pesa
Fare a le madri lor si grave offesa.
Quel pur de la risposta entro il pensiero
Va rivolgendo ancor tutto il tenore:
Al fin, qual buono interprete e sincero,
Il senso, ch’era ascoso, trasse fuore.
Poi, che gli parve haver compreso il vero,
Noi eravamo, disse in grande errore:
Ch’i consigli de i Dei sono fedeli,
Ne ricercan da l’huomo opre crudeli.
La terra è universal madre di noi,
Che’l corpo havem da lei vile e terreno:
E tutti a quella ritorniam da poi,
Che’l breve cerchio de la vita è pieno:
Le pietre al mio parer son gliossi suoi,
Che noi veggiamo nel suo largo seno.
Quelle comanda a noi, che trar dobbiamo
Themi; ne vieta alcun, che lo facciamo.
Queste parole di speranza nova
Sparsero alquanto de <st1:personname productid="la Donna" w:st="on">la Donna</st1:personname> il core:
Ma quella è così poca, che non trova
Loco, che non piu in lei possa il timore.
Pur, da che nulla nuoce il farne prova,
Tra lieti e mesti uscir del Tempio fuore:
E velandosi insieme ambi la testa,
Discinse ella la gonna, esso la vesta.
Presero i sassi: e per diversa via
Trassero quei dopo le spalle al vento.
So, che falsa terrà la historia mia,
Alcun di noi, ch’ad ascoltarla è intento:
Ma chi cio scrisse, testimon mi sia,
Che da me nulla fingo, e ch’io non mento.
Lasciaro i sassi la natia durezza,
E preser non piu usata tenerezza.
Divenner tutti a poco a poco molli:
Indi presero tutti humano aspetto.
Quivi formar si veggon visi e colli,
Là gambe e braccia, e colà schena e petto.
Cotal vedrai, se alcuna volta tolli
Lavor da dotte man, rozo e imperfetto.
La diversa materia, che ne i sassi
Era, in piu cose trsformando vassi
Che l’humido e terren polpa divenne
Vestendo il corpo; e ossa il duro e asciutto.
Quelle, che vene fur, rimaser vene,
Onde il sangue vital corse per tutto.
Così formato, e così ordito bene
Fu questo incarco, e animato in tutto.
I sassi, che di man di Pirra usciro,
Il sesso feminil tutti sortiro.
Quei di Deucalion con miglior sorte
Divenner maschi: e quindi avvien (secondo
L’origine) che l’huomo e duro e forte
A sostener de le fatiche il pondo.
Così il santo marito e la consorte
Ritornano il perduto seme al mondo.
Onde lieti, e contenti, e senza affanni
Vissero insieme assai gran copia d’anni.
Il resto de la terra, ch’era ancora
In molte parti molle e paludosa,
Poi, che scaldata fu da chi l’infiora,
E rende a i tempi fertile e herbosa;
Con la viva virtù, che’n lei dimora,
Come nel corpo de la madre, ascosa,
Produsse varie forme d’animali,
Larga e cortese a l’util de’ mortali.
Si come, quando le campagne lassa
Stagnando il Nilo, e nel suo letto riede,
L’huom diversi animal, dovunque passa,
Formati da le zolle incontra e vede,
De’ quali alcuno è un’imperfetta massa
Sovente senza capo e senza piede:
Et in un corpo parte è terra soda,
E parte carne, che s’aggia e snoda.