2-8 d.C.
OVIDIO, Metamorfosi, I, vv. 240-415
Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Bernardini Marzolla P., Einaudi, Torino 1994, pp. 19-25
(Decisione di Giove e diluvio, vv. 240-312)
Una casa è crollata, ma non solo una meritava
la distruzione: dovunque è terra, selvaggia v'impera l'Erinni.
Una congiura del crimine, la diresti; e allora ognuno
paghi all'istante la pena che merita: così è deciso!».
A viva voce una parte approva le parole di Giove,
aizzando la sua ira; un'altra si limita ad assentire.
Ma la distruzione del genere umano addolora tutti,
e tutti si chiedono che aspetto avrà in futuro la terra
senza i mortali, chi offrirà incenso agli altari,
e se lui pensi di lasciare il mondo in balia delle fiere.
Questo chiedono, ma il loro sovrano li convince a non temere
(penserà lui a tutto), promettendo una stirpe diversa
dalla precedente e di origine miracolosa.
Già al punto di scagliare i suoi fulmini su tutta la terra,
il timore lo colse che l'etere sacro potesse incendiarsi
con tutto quel fuoco, e che bruciasse il lungo asse del mondo.
Memore che il destino prediceva un tempo
in cui sarebbe arso il mare, arsa la terra, travolgendo la reggia
del cielo, e l'edificio complesso del mondo avrebbe vacillato,
si deposero le armi fabbricate dalle mani dei Ciclopi
e si decise una pena diversa: annientare il genere umano
nei flutti, rovesciando un diluvio da tutto il cielo.
Senza indugio chiude negli antri di Eolo l'Aquilone
e ogni vento che possa disperdere gli ammassi di nubi;
libera invece Noto, e questo si libra sulle sue ali madide,
col volto terrificante avvolto di caligine nera:
la barba è gravida di gocce, grondano acqua i bianchi capelli,
sulla fronte calano nebbie, gocciolano penne e vesti;
e a un tratto con tutta la mano preme le nubi sospese:
scoppia un fragore, e fitta dal cielo scroscia la pioggia.
Ammantata di vari colori, Iride, messaggera
di Giunone, attinge acqua e le nuvole alimenta:
travolte le messi, il contadino piange le sue speranze
rase al suolo e la frustrante fatica di tutto un anno svanita.
Ma l'ira di Giove non si limita al suo cielo: Nettuno,
l'azzurro suo fratello, gli porta aiuto coi flutti.
Convoca i fiumi ai suoi ordini e quando questi si presentano
alla sua reggia: «Non è tempo di perdersi in lunghe esortazioni»,
dice. «Scatenate le vostre forze: questo è il compito
assegnato. Spalancate le chiuse e, rimossi gli ostacoli,
lanciate le vostre correnti a briglia sciolta».
Così ordina e quelli, al ritorno, sciolgono le sorgenti,
che a corsa sfrenata rovinano giù verso il mare.
Lui, Nettuno, col suo tridente percuote la terra: quella
trema, e le scosse aprono la via all'acqua.
Straripando i fiumi erompono in aperta campagna
e travolgono seminati, piante, greggi, uomini,
tetti e con le immagini sacre i santuari.
Anche se qualche casa rimane, reggendo a tanta furia
senza crollare, l'acqua superandola ne sommerge la cima
e le torri spariscono strette nella morsa dei gorghi.
Ormai non c'è più divario tra mare e terra:
tutto è mare, un mare privo d'approdi.
Uno conquista un colle, l'altro sul banco di un guscio a becco
rema sui luoghi dove prima arava;
quello naviga sui seminati o sul tetto di una villa
sommersa, questo afferra un pesce in cima a un olmo.
A caso l'àncora si pianta nel verde dei prati
oppure la carena sfiora la vigna subito sotto,
e dove prima le snelle caprette brucavano l'erba,
ora col loro corpo informe giacciono le foche.
Con stupore guardano le Nereidi sott'acqua boschi, città
e case, e in mezzo a selve, urtando rami altissimi,
squassando querce a furia di colpi, s'aggirano i delfini.
Nuota tra pecore il lupo, trascina la corrente
leoni e tigri, e a nulla serve la forza fulminea
ai cinghiali, l'agilità delle zampe ai cervi travolti,
e dopo aver cercato a lungo una terra su cui posarsi,
con le ali stremate, smarriti gli uccelli precipitano in mare.
La furia sfrenata del mare ormai ha coperto le alture,
e i flutti, cosa mai vista, si frangono contro i picchi dei monti.
Il più degli uomini è travolto dai marosi e quelli risparmiati
sono vinti, per mancanza di cibo, dal lungo digiuno.
(Deucalione e Pirra,vv. 313-415)
La Fòcide separa la regione degli Aoni dalla regione dell’Eta.
Terra ferace, finché era stata terra, ma, in quel momento,
parte di mare e vasta distesa di acque cresciute all’improvviso.
Lì un monte si leva altissimo con due cime verso le stelle:
si chiama Parnaso, e le sue vette sovrastano le nuvole.
Fu in questo luogo (l'unico non sommerso) che Deucalione
approdò su piccola barca con la sua compagna di letto,
e subito si misero a pregare le ninfe della grotta Coricia e le divinità
della montagna e Temi, la dea che predice il destino e che
era a quel tempo signora dell’oracolo.
Mai ci fu uomo più buono di lui e più amante
di giustizia, mai ci fu donna più timorata di lei. E Giove,
quando vide il mondo allagato, ridotto a un palude stagnante,
quando vide che di tante migliaia d'uomini che c’erano poco prima
non era scampato che quello, che di tante migliaia di donne
che c’erano poco prima non era scampata che quella,
due esseri innocenti, due esseri devoti, squarciò la cappa di nubi
e, dispersi i nembi con Aquilone, rimostrò al cielo la terra, e alla terra il cielo.
Cessò anche la furia del mare. Deposta la sua arma a tre punte,
il dio delle acque rabbonì le onde e chiamò l'azzurro Tritone,
- che sporge fuori dai gorghi con le spalle incrostate
di conchiglie - e gli ordinò di soffiare nella bùccina sonora,
per far rientrare ormai, con quel segnale, i flutti e i fiumi.
E Tritone prese la sua bùccina cava
e ritorta, che dalla punta si allarga in su a spirale,
la bùccina che, quando le si dà fiato in mezzo al mare,
riempie del suo rimbombo le coste a levante e a ponente.
Anche allora, come egli la portò alla bocca imperlata di
gocce tra la barba bagnata e vi soffiò dentro suonando, come ordinato,
la ritirata, la udirono tutte della terraferma e del acque del mare
e tutte, uditala, rientrarono ubbidienti.
I fiumi calano e si vedono rispuntare i colli,
il mare riacquista un lido, i letti riaccolgono i fiumi, anche se gonfi;
la terra emerge, ricrescono i luoghi col decrescere delle acque,
e dopo la lunga notte i boschi mostrano le loro cime spoglie
reggendo ancora sui rami residui di fango.
Il mondo era tornato come prima. E Deucalione,
quando lo vide deserto, con i profondi silenzi
che regnavano sulle distese desolate, così parlò
a Pirra, con gli occhi inumiditi di lacrime:
«Sorella mia, moglie mia, unica donna superstite,
a cui mi hanno unito dapprima la comunanza di stirpe e
il fatto che siamo cugini, poi mi hanno unito le nozze e adesso
mi unisce il pericolo stesso, di tutte le terre che si stendono
da levante a ponente noi due siamo tutta la popolazione:
il resto se l’è preso il mare.
E ancora non possiamo stare del tutto tranquilli per la nostra vita.
Ancora mi offusca la mente la visone di quelle nuvole spaventose.
In che stato d’animo saresti ora, poverina, se fossi scampata
alla morte senza neppure me? Come riusciresti da sola a
sopportare la paura? Con chi potresti sfogare il tuo dolore?
Io, credimi, se il mare avesse inghiottito anche te, ti avrei seguito,
moglie mia, e il mare avrebbe inghiottito anche me.
Oh se la dote di mio padre, di plasmare della terra e
infondervi la vita, e potessi rifare i popoli!
Ora il genere umano è ridotto a noi due,
così è parso agli dei, e noi siamo gli unici esemplari».
Così disse, e piangevano. Decisero di pregare la potenza
celeste e di chiedere aiuto al sacro oracolo.
Subito si accostarono entrambi alla corrente del Cefìso,
non ancora limpida, ma che già filava nel suo letto usuale.
Attinsero dell'acqua, si sprizzarono le vesti
e il capo e quindi volsero il passo verso il tempio
della santa Temi. Il tetto era sporco di pallido muschio,
e non c’era fiamma sugli altari.
Come giunsero ai gradini del tempio, ambedue si buttarono
in ginocchio chinandosi fino a terra, baciarono pieni di timore
la gelida la pietra e dissero: «Se alle giuste preghiere le divinità
si rabboniscono, se l'ira degli dei si placa,
dicci o Temi, con quale mezzo si può rimediare alla rovina
della nostra specie, e soccorri, o mitissima, il mondo sommerso».
La dea si commosse e dette questo responso: «Andando via dal tempio
velatevi il capo e slacciatevi le vesti
e gettatevi dietro le spalle le ossa della grande madre».
Rimasero per lungo tempo ammutoliti dallo stupore. Poi Pirra ruppe
per prima il silenzio dicendo che si rifiutava di obbedire e
pregando con voce tremante la dea di perdonarla, ma aveva paura
di offendere l'ombra di sua madre, a disperderne le ossa.
E continuarono a ripetersi dentro di sé le parole del responso,
oscure, tenebrose, e a rimuginarvi sopra.
Ma a un tratto Deucalione, figlio di Prometeo, fece alla figlia
di Epimeteo questo consolante discorso: «Forse m'inganno,
ma forse ho capito e il responso non è empio e non
ci esorta a nessun sacrilegio.
La grande madre è la terra; per ossa, penso, vanno intese
le pietre, che stanno nel corpo della terra: sono queste che
noi dobbiamo gettarci dietro le spalle».
La figlia del Titano rimase scossa dall'interpretazione del marito,
eppure non osavano sperare, tanto ambedue trovavano incredibile
il consiglio divino. Ma che male c’era a tentare?
S'incamminarono e si velarono il capo e si slacciarono le vesti,
e lanciarono all’indietro dei sassi, ubbidendo al responso, sulle proprie orme.
I sassi - chi lo crederebbe se non l'attestasse una tradizione così veneranda? -
cominciarono a perdere la loro fredda durezza,
ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi, a prendere forma.
Quindi crebbero e diventarono di natura più tenera,
e allora i cominciarono a intravedere delle forme umane,
ma ancora mal rifinite, come se abbozzate
nel marmo, similissime a statue appena iniziate.
Poi, però, se c’era in loro una parte umida di qualche succo
e terrosa, questa passò a fungere da corpo;
ciò che era solido e impossibile a piegarsi, si mutò in ossa;
quelle che erano vene, rimasero, con lo stesso nome.
E in breve tempo, per volontà degli dei, i sassi
scagliati dalla mano dell'uomo assunsero l'aspetto di uomini,
dai lanci della donna rinacque la donna.
Per questo siamo una razza dura e rotta alle fatiche
e i nostri atti provano di che origine siamo.