39: Apollo e Dafne

Titolo dell'opera: Apollo e Dafne (?)

Autore: Bernardino Luini

Datazione: 1520-1523    

Collocazione: Milano, Pinacoteca di Brera; già Villa della Pelucca, presso Monza

Committenza: Gerolamo Rabia

Tipologia: dipinto

Tecnica: affresco trasportato su tavola (208 x 193 cm)

Soggetto principale: Dafne e Apollo (?)  

Soggetto secondario:  

Personaggi: Apollo (?), Dafne (?), Peneo (?) 

Attributi: corpo in forma di tronco d’albero (Dafne ?)

Contesto: paesaggio montano con fiume

Precedenti:

Derivazioni:

Immagini: 

Bibliografia: Williamson G.C., Bernardino Luini, G. Bell and sons, Londra 1899, pp. 18 sgg., 117 sgg., 126 sgg.; Stechow W., Apollo und Daphne, Studien der Bibliothek Warburg, Leipzig 1932; Gauthiez P., Note sur Bernardino Luini, in "Gazzette des Beaux Arts", 1899 (II), pp. 96-97; Gauthiez P., Luini: biographie critique, Laurens, Parigi 1905, pp. 28 sgg., 35 sgg.; Malaguzzi-Valeri P., Nuovi dipinti di Bernardino Luini, in "Rèpertoire d'Art et d'Archeologie",XIII, 1913, p. 31; Ottino della Chiesa A., Bernardino Luini, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1956, pp. 98-101, cat. n. 120; Giraud Y., La fable de Daphné. Essai sur un type de métamorphose végétale dans la littérature et dans les arts jusqu'à la fin du XVII° siècle, Droz, Ginevra 1969, pp. 250-251; Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini, catalogo della mostra a cura di Chiara P., Silvana Editoriale d'Arte, Milano 1975, pp. 35 sgg., 87 sgg.; Davidson Reid J.-Rohmann C., The Oxford Guide to Classical Mythology in the Arts, 1300-1990, New York-Oxford 1993, I, p. 327

Annotazioni redazionali: Si tratta di un affresco staccato, proveniente, assieme ad altri tre, dalla Villa alla Pelucca presso Monza, villa che all’inizio del Cinquecento era di proprietà di Gerolamo Rabia, per il quale il Luini aveva decorato anche un palazzo in Piazza San Sepolcro a Milano. All’inizio dell’Ottocento tale villa entrò a far parte dei beni del principe Eugenio di Beauharnais; ma con la caduta del Regno Italico, passò fra i beni dell’Imperatore d’Austria, gestiti dall’erario del Regno Lombardo-Veneto, che decise l’alienazione della villa. L’Accademia di Belle Arti intervenne, allora, affinché si soprassedesse al passaggio di proprietà, fino a che tutti gli affreschi conservati nella villa non fossero strappati, fu così che tra il 1821 ed il 1822 vennero staccati 25 pezzi, 10 destinati a Brera e 15 al Palazzo Reale di Milano. Gli altri tre affreschi, prelevati dalla stessa stanza dove si trovava anche il nostro, raffiguravano un non meglio identificato cavaliere in corsa, Mirra trasformata in albero e sacrifici in onore di Pan, perciò doveva trattarsi di una sala a decorazione mitologica, probabilmente ispirata al testo ovidiano. L’affresco in questione ha creato numerosi problemi ai critici dal punto di vista iconografico, ed è stato talvolta interpretato, soprattutto in collegamento con l’altro dipinto raffigurante la Trasformazione di Mirra in albero, come la Nascita di Adone. Anche la favola di Mirra viene narrata nelle Metamorfosi (X, 298-518) di Ovidio: Mirra era una fanciulla che si innamorò del padre Cinira, re-sacerdote di Cipro, figlio di Pafo e nipote di Pigmaglione, si unì al padre ubriaco con l’inganno, ma quando quest’ultimo lo venne a sapere iniziò ad inseguirla per ucciderla, prima che potesse raggiungerla, tuttavia, Mirra si trasformò in albero. La fanciulla però, rimasta incinta del padre, ed ebbe comunque la possibilità di mettere al mondo il suo bambino, Adone: il momento del parto viene così descritto dall’autore: “[…] Compaino delle crepe, e dalla corteccia squarciata l’albero dà alla luce un essere vivo: un fanciullo, che si mette a vagire. Le Naiadi lo depongono su molle erba e lo ungono con le lacrime della madre. Perfino l’Invidia vorrebbe lodarlo per la sua bellezza: il suo corpo è infatti come quello dei nudi Amorini che si dipingono nei quadri; unica differenza, la leggera faretra: ma puoi toglierla a loro, oppure aggiungerla a lui” (X, 512-518). Ora tale descrizione non sembra trovare alcun riscontro nell’affresco in questione: infatti qui riconosciamo sulla sinistra una figura femminile trasformata in albero, ma questa sembra rivolgersi ad un giovane e non ad un bambino, inoltre non vi è alcuna traccia delle Naiadi, che si presero cura del Adone appena nato, mentre al centro compare una figura di vecchio nudo con la parte inferiore del corpo immersa in un fiume. Il vecchio in questione, inoltre, sembra rivolgersi al giovane pensoso seduto sulla riva del fiume, e quindi mostra di avere un ruolo attivo nella composizione, tuttavia, un personaggio simile non compare nella vicenda di Mirra e Adone, neppure quando Ovidio descrive il bambino ormai divenuto uomo, poiché questo passaggio serve solamente ad introdurre la vicenda di Venere innamoratasi di Adone, e non ha un ruolo importante dal punto di vista della narrazione: “Nascostamente il tempo vola via, senza che ci se ne accorga, e nulla è più veloce degli anni. Il bimbo, figlio di sua sorella e di suo nonno, il bimbo che poco fa era racchiuso nel tronco, che poco fa è nato, che or ora era un bellissimo fanciullo, ecco è già un giovane, già un uomo, già supera se stesso in bellezza, già piace perfino a Venere ripagandola così della passione della madre Mirra” (X, 519-524). Non si può escludere che qui l’artista abbia voluto raffigurare, in modo libero ed originale, il momento dell’educazione del giovane Adone, compiuta da una saggia divinità montana, dei boschi e dei fiumi, sotto lo sguardo attento della madre Mirra, considerando anche che l’atmosfera, che pervade quest’opera, sembra assai statica e passiva, quasi di riflessione. Proprio quest’atmosfera, come l’intera composizione, sembra differire anche dall’iconografia diffusa del mito di Dafne, l’artista non avrebbe raffigurato in questo caso né il momento della fuga della ninfa da Apollo, né quello della metamorfosi, che sembra piuttosto già avvenuta da qualche tempo, con l’aspetto femminile della figura che torna a mostrarsi per un breve istante sotto la corteccia. Forse potrebbe essere corretta, in questo senso, la lettura dell’opera fornita da Stechow, per il quale l’artista non avrebbe qui voluto raffigurare i momenti salienti del mito, ma si sarebbe piuttosto ispirato all’Egloga II, Apollo e Pan, di Lorenzo de Medici, in cui Apollo, divenuto pastore, risponde all’invito di Pan di intonare un canto lirico in ricordo della fanciulla amata divenuta albero, ed in cui il dio quindi sembra dialogare con Dafne, ormai albero, ed il fiume Peneo suo padre:  

O bella ninfa, ch'io chiamai già tanto

sotto quel vecchio faggio in valle ombrosa,

né tu degnasti udire il nostro canto;

deh, non tener la bella faccia ascosa,

se gli arditi desir già non son folli

a voler recitar si alta cosa.

Io te ne priego per gli erbosi colli,

per le grate ombre, e pe’ surgenti fonti, […]

per le leggiadre tue bellezze oneste […]

per la candida tunica, che veste

l’eburnee membra tue, pe’ capei biondi, […]

Ninfa, ricorda a me, che versi fôro

cantati dalli dei, perché convenne

ciascuna ninfa per udir costoro.

Elisa Saviani