Daffr03

Ludovico Dolce, Le Trasformazioni, Venezia, Gabriel Giolito de' Ferrari, 1553 (II ed. rivista e corretta), Canto II

Dafne

 

[f. B ii]

Cosi disse; e spiegò l’aurate penne [Cupido]                                                                                       

Per l’aria a volo: e dopo un breve giro

Sopra il monte Parnaso le ritenne

Con l’alma al vendicar d’Aspice e Tiro.

Quivi, qual cauto arcier la mira tenne

Per dar al suo nimico aspro martiro,

Fin che vide passar leggiadra e sola

Dafne; che fu a Peneo cara figliuola.

 

Cupido alhor de la faretra fuore

Di contraria virtù due strali adduce:

L’uno è d’oro e pungente; e questo amore

In ogni petto, cui egli fere, induce:

L’altro è di piombo; e a impiegar’il core

Punta non ha, ma sempre odio produce.

Il garzon contra il qual forza non vale,

Dafne ferì con l’impiombato strale.

 

E con l’aurato poi trafisse il petto

D’Apollo, e l’impiagò, quant’egli volle:

Che quel fece non pur l’usato effetto,

Ma penetrò per l’ossa a le midolle.

L’un tutto è acceso d’amoroso affetto:

L’altra l’ha in odio, e dinanzi se gli tolle;

Come colei, ch’a la pudica dea

La sua virginità sacrata havea.

 

In habito di Ninfa andava errando

Per luoghi incolti e soletarie selve,

Con intrepido cor sempre cacciando

Spaventosi animali e strane belve,

Spesso col teschio a la sua magion tornando

Di qual Fera piu lenta si rinselve:

Fuggia da tutti gli huomini io conchiudo;

Ne fe Natura mai petto si crudel.

 

Peneo, che de la figlia desiava

(Come ogni padre suol) ricever prole;

Lei spesso al maritar nodo esortava

Hor con minaccie, hor con dolci parole.

Ma Dafne, che ’l viril sesso sprezzava

Da lui s’invola, et obedir non vuole.

Ond’egli poi, che molto fece e disse,

Lasciò, ch’al fine il suo voler seguisse.

 

Come raccolte le mature spiche

Ardon le stoppie per gli aperti campi;

O, quando alluma le montagne apriche

Il sol, avvien ch’arido siepe avampi,

Se v’accostar man semplici o nimiche

Acceso foco: cosi ardenti lampi

Il corpo, di che allor ne fu satollo,

Portò ne l’ossa a l’immortale Apollo.

 

Arde, e nudrisce di speranza vana

Febo (ne se n’avvede) il folle ardore:

Che la bella seguace di Diana

Tant’odia lui, quant’ei le porta amore.

Quella rara bellezza, e piu che humana,

Le fa nido e radice in mezo ’l core:

E par, che nel mirarla ogn’hor piu cresca

De l’amoroso incendio il foco e l’esca.

 

Mira i lacci d’amor, le bionde chiome,

Che sopra ’l bianco collo ivano sparte;

E dice, se neglette han gratia, come

Belle sarian, se fosser concie ad arte?

Di queste il nodo a le mie care some

Ha fatto Amor; che la piu nobil parte

Di me possede: et hor di gloria cinto

Forse trionfa in ciel d’havermi vinto.

 

Gliocchi semiglia a due lucenti stelle

Fra i piu chiari del ciel lumi divini;

Che scintillano in lui tante fiammelle,

Che piu non hanno i Sicilian camini.

A latte e rose ambe le guance belle,

E le labbra a coralli, anzi a rubini:

Ne a bastanza il veder gli par che sia,

Ma piu avanti di ciò Febo disia.

 

Mira le belle e ben formate braccia,

candide piu, che non è fresca nieve;

Che per poter adoperarsi in caccia

Nude ha la Ninfa fuggitiva e lieve.

O, come insieme Apollo arde et agghiaccia;

Come il velen d’Amor per gliocchi beve?

Ne da a le bianche man l’ultimo honore,

Da qual senz’esser tocco è preso il core.

 

[f. B iiv]

E, come tutto bello e pellegrino

Giudica quel, ch’a la sua vista appare;

Cosi stima piu degno, anzi divino,

Quanto l’invidia gonna può occultare.

Fugg’ella intanto; ne fossato, o spino,

Che ne la selva sia, la fa tardare:

E fugge si veloce, che saetta

Non cade, o vento va con tanta fretta.

 

Apollo, che fuggir la Ninfa vede,

Studia frenar con le parole il corso;

E va cercando quelle, che piu crede

Atte a trovarle alcun ritegno, o morso:

E a si gran’uopo al suo nimico chiede

Al suo nimico amor chiede soccorso:

Usa detti pietosi, humili e pronti

D’addolcir tigri e da fermare i monti.

 

Qual t’induce a fuggir Ninfa cagione

Chi piu di te, che di se stesso è amico?

Cosi lupo agna suol, cerva leone

Fuggir, perche ciascun fugge il nimico:

Cosi colomba l’aquila, e ’l falcone

Di lei rapace predatore antico.

Me non odio, ne sdegno, ne furore,

Ma solo sforza a seguitarti amore.

 

Deh, se quei pie’, che cosi presti vanno

Per la selva deserta, aspra, selvaggia;

Non vuoi fermar, perche del nostro affanno

L’agghiacciato tuo cor pietà non haggia;

Ti faccia gir piu lenta il proprio danno,

E l’util di te stessa accorta e saggia:

Gli acuti e folti spin riguarda inane,

Che offender pon le delicate piante.

 

E s’humil prego in cor di Ninfa valle,

Di Ninfa, che non fia di amor rubella;

O, se di te, piu che di me ti cale,

Non fare ingiuria a la persona bella:

Ch’io per non esser causa del tuo male,

(Benche trovi al mio ben nimica stella)

Et habbi nel fuggir alcun riguardo,

Sarò nel seguitar piu lento e tardo.

 

Rivolgi Ninfa la sdegnosa fronte,

E vedi chi per te piagato ha ’l core.

Non rozo habitator d’incolto monte

Son’io, ne vil bifolco, ne pastore;

Che meni gregge appresso fiume, o fuore,

O per l’ampie campagne a pascer fuore.

E forse semplicetta anco non sai,

Qual è colui, che tu fuggiendo vai.

 

In terra al nome mio rendono homaggio

Delfo, e piu regni, e sempiterno honore.

In cielo io son colui, che col mio raggio

Allumo ’l mondo, e parto i giorni e l’hore:

E rotando per l’erto mio viaggio

Vesto la terra di nobil colore;

E tal le do virtù, ch’ella dapoi

Porge a mortali larghi frutti suoi.

 

E tutto quel, ch’è stato, o fia giamai,

O presente nel mondo hoggi si trova;

Fu don de’ chiari miei possenti rai,

E per me si perpetua e si rinova.

Ma che bisogna, ch’io mi stenda homai

D’intorno a cosa, ond’è si lunga prova?

Giove di tutti re, di tutti dio,

O celesti, o terreni, è padre mio.

 

Da me scende virtù, per cui sovente

Cantando versi inusitati e rari

Alti intelletti; onde n’ha poi la gente

Al secondo morir schermi e ripari.

Ne saetta d’altrui piu giustamente

Arriva al segno, o puo gir meco al pari;

Tratto lo strale e la saetta fuore

Che fisse dentro del mio petto amore.

 

L’arte io trovai, che la salute humana

Conserva, e torna la smarrita spesso

E non ha piano o monte herba si strana,

Ch’io non conosca il suo valor espresso.

Ahi, che piaga d’amor herba non sana:

Et io, cui privilegio fu concesso

Di sanar altri, non ritrovo via

Di poter risanar la piaga mia.

 

[f. B iii]

Queste et altre parole ancor seguiva

L’inamorato dio, ma tutte in vano.

La bella cacciatrice, che fuggiva,

L’havea lasciato homai troppo lontano.

Feria ne capei d’or l’aura lasciava;

E vibrando il bell’habito sovrano

Discopria de l’ascose parti belle

Al bramoso amatore hor queste, hor quelle.

 

L’affanno, che porgean le incolte strade,

Da la paura accompagnato insieme,

Al bel volto accrescea doppia beltade,

Se pur accrescer pon bellezze estreme.

Ma vedendo per lui morta pietade

Febo, via maggior stimolo lo preme.

Dietro la bella Fera, che s’invola

Rinforza il corso, e impetuoso vola.

 

Si come in voto e spatioso campo

Segue timida Lepre audace Cane;

Che presto, come in ciel folgore e lampo,

Non lascia l’orme sue molto lontane.

Quel co’ piedi procaccia il proprio scampo,

Questo la preda: e non cessa o rimane

Di seguitar: ma quando haver sel crede,

Lo lascia a dietro il frezzoloso piede.

 

Cosi colei, cosi ’l rettor del lume,

La tema quella, e la speranza questo,

Facea lievi e spediti oltre il costume:

L’uno ha dubbioso il cor, l’altra l’ha mesto.

In fin giunse ad Apollo Amor le piume:

Onde de la donzella era piu presto.

E gia la soffia il crin, che sparso valle

Coprendo il collo e le rosate spalle.

 

Alhor divenne pallida et smarrita

La bella Ninfa, e ben si tenne vinta.

Pur si rinforza, e quanto puo, s’aita,

Da gelato timor tutta sospinta:

E piu tosto vorria perder la vita,

Che sua verginità le fosse estinta.

Poi, che ’l vigor a l’alma non risponde,

Stanca fermossi di suo padre a l’onde.

 

E disse, padre mio (s’è ver c’habbiate

Fiumi divinità ne le vostr’acque)

Difendi per pietà la mia honestate,

Ch’a me serbar sopra ogni cosa piacque.

Benigna terra, e tu questa beltate,

Che per mio danno e per mia morte nacque,

Deh perdi si, che non ne resti un’orma,

Cangiando il corpo in qualche strana forma.

 

Cio dire a pena il doloroso affetto

Con l’istrumento de la lingua pote,

Che tosto con non piu sentito effetto

Insolito tremor l’alma le scuote.

Coperse dura scorza il molle petto,

Che l’alta novità fere e percote:

E con miracol disusato e raro

In due rami le braccia si cangiaro.

 

Cosi le chiome, ch’a la bella fronte

Faceano tetto d’or, divenner fronde,

E e fugaci piante al correr pronte

Fermar salde radici in riva a l’onde.

A questo il volto e le bellezze conte,

Crescendo il tronco, in un momento asconde.

Ma, come amolla Febo oltre ogn segno

Il corpo humano, hor l’ama arbore e legno.

 

Quinci d’amor e di pietate ardente

Con man lo tocca, e palpitar ancora

Sotto la nuova scorza il petto sente,

E toccando piu, piu s’innamora.

Abbraccia i rami, come veramente

Fossero braccia; e bascia adhora adhora

L’arbore: e quel, c’ha vigor fresco e vivo,

Par che lo fugga, e se ne mostri schivo.

 

Diss’egli poi, che mi t’invola e toglie

Strana ventura, che ti copre e ammanta;

E ch’esser non mi puoi gradita moglie,

Mentre volgerà il ciel, sarai mia pianta.

Orneran la mia cetra le tue foglie,

La mia faretra, e la mia chioma santa:

E’l primo honor havrai ben nato Lauro

Di quanti arbori son da l’Indo al Mauro.

 

[f. B iiiv]

Tu ne piu fausti dì, tranquilli, e lieti

Farai corona a gli honorati crini

Di duchi, imperatori e di poeti,

Eterna gloria a bei campi latini.

Tu dopo lungo giro di pianeti

(Merce di fortunati almi destini)

Le chiome cingerai di CARLO QUINTO,

Poi c’havrà l’asia e l’universo vinto.

 

Questi di gloria e di alte spoglie onusto

Tornando ogn’hor con vincitrice mano,

Fia ’l piu clemente principe, e ’l piu giusto,

Che giamai fosse hebreo, greco o romano

E di felicità vincerà Augusto,

Di valor Giulio, e di bontà Traiano;

Ne porrà solo a la Germania, e al Rheno,

Ma, come io dico, a tutto ’l mondo freno.

 

E si come in perpetuo il capo mio

Adornan chiome giovenili e bionde;

Cosi di tempo in tempo anco vogl’io

Che mai non manchi il verde a le tue fronde.

E perche ’l ghiaccio e ’l verno acerbo e rio

Secchi ogni fiore, et ogni ramo sfronde;

In te non havrà forza: e le sue prove

Perderà teco il folgore di Giove.

 

La bella piantà alhor parve gioire:

Onde piegando i giovinetti rami,

Si scosse; quasi ella volesse dire,

Febo m’è grato, che m’honori et ami.

Tal fu d’Apollo misero il desire,

E tal d’Amor l’aspre saette e glihami:

Cosi principio al mondo hebbe l’Alloro,

Che fu si grato al bel castalio coro.